SEVEN SWORDS
REGIA: Tsui Hark.
CAST: Donnie Yen, Charlie Young, Leon Lai Ming
SCENEGGIATURA: Cheung Chi Sing, Chun Tin
ANNO: 2005
A cura di Luca Lombardini
SETTE
SPADE DI VIOLENZA
Dopo aver passato gli ultimi anni a barcamenarsi tra gli impegni imposti dal
ruolo di produttore, Tsui Hark ritorna prepotentemente a far parlare di se, con
questo wuxiapian epico, intriso fino al midollo di sentimenti primitivi come
l’amore, la morte, l’onore in battaglia e l’amicizia. Molte
erano le aspettative intorno a Seven Swords e non solo per il suo ruolo di
apripista all’ultima mostra di Venezia, ma soprattutto perché,
l’ultima volta che il regista vietnamita si avvicinò al genere con The
Blade, firmò senza mezzi termini una delle pellicole imprescindibili del
wuxiacontemporaneo. Sorretto da una trama asciutta, l’ultima fatica di
Hark amalgama fin da subito linguaggie generi cinematografici solo apparentemente
distanti tra loro. L’autore infatti, si diletta nel mescolare
topoinarrativi propri del western, come nel caso della presentazione
dell’esercito personale del malvagio Vento di fuoco (che ricorda le bande
di spietati desperados a caccia di taglie), con rimandi ai canovacci di alcuni
mostri sacri dei chambaragiapponesi, che fanno tornare alla mente gli spunti
narrativi dei Sette Samurai. Seven Swords rivela inoltre una neanche tanto
velata critica politica, visibile nitidamente sotto la metafora dell’editto
imperiale che bandisce la pratica delle arti marziali, rappresentate da Tsui
Hark come uno dei tanti bagagli tradizional-culturali messi in pericolo dalle
tendenze politiche del nuovo millennio. Tale inclinazione d’altronde, è
una sorta di punto fermo della costruzione narrativa del cineasta, che già con
We are going to eat you si divertiva ad intellettualizzare un esilarante
affresco cannibal-Kung-fu, arricchendolo di allegorie sul potere. Da un punto
di vista strettamente cinematografico, il film conferma in ogni sequenza quanto
di buono si vociferava su di esso da tempo: stile realistico, atmosfere
claustrofobiche, montaggio straniante fatto tutto di piani fissi sono inseriti
in un contesto visivo che deve molto all’immaginario sanguinario di Zhang
Che (evidenti i richiami a Return of the one Armed Swordman e a The Heroic
Ones, rispettivamente omaggiati con l’impiego di armi
“tecnologiche” e con la scena del tentato squartamento finale), che
farà la gioia di tutti i puristi dell’azione nuda e cruda. La pellicola
infatti, trae linfa vitale dalla polvere alzata durante i duelli, dove
l’acciaio delle spade fa più rumore dei proiettili di un film di Michael
Mann, e le mani non hanno paura di sporcarsi di sangue e di grasso di carne.
Siamo quindi su tutto un altro emisfero rispetto alla visione New Age di Hero e
de La tigre e il dragone; le stesse sequenze acrobatiche d’altronde,
curate alla perfezione dal maestro Lau Kar-leong, vengono messe in scena in
tutta la loro pesantezza, dove il volteggiare di corpi umani e animali appare
appena un gradino sopra il limite del reale, ignorando così le tendenze
computeristiche post Matrix.
Seven Swords non è però tutto rose e fiori. Il film si ingolfa in una parte
centrale troppo lunga e noiosa, dove una trama semplice semplice, probabilmente
per le esigenze future dei cinque ipotetici sequel, diventa ben presto
insostenibile, trasformando così la pellicola da possibile capolavoro in una
ghiotta occasione sprecata. Si assiste quindi a sequenze estenuanti
(l’addio al fedele cavallo fucile) e ad alcuni momenti di umorismo
involontario, come il tanto agognato spettacolo dell’alba nascente che
dura appena una frazione di secondo.
Nonostante l’eccessivo trascinarsi del racconto, personaggi
iconograficamente preziosi che bucano lo schermo come la bounty killer punk ad
esempio, vengono solo abbozzati, o cadono sotto i colpi dei magnifici sette
troppo presto.
Altri elementi che sarebbero potuti diventare fondamentali nella narrazione,
come l’infanzia del cavaliere buono numero tre (uno che afferma di essere
cresciuto tra i lupi meriterebbe almeno un flashback sulla sua infanzia) o il
passato da carnefice del ladro di tavolette funerarie ora redento, meritavano,
senza se e senza ma, un trattamento più nobile. Bisogna però ricordare che qui
si entra nel campo della sceneggiatura, dove il buon Tsui ha si delle
responsabilità, ma fino ad un certo punto.
Il doppiaggio italiano poi, penalizza oltremodo numerosi momenti topici del
film, e il sospetto che le battute originali siano state trattate con troppa
leggerezza aumenta quando si assiste alle poche scene recitate in koreano, dove
l’audio originale trasmette tutt’altra enfasi rispetto al
doppiaggio capeggiato dal “nostro” Pino nazionale. Per fortuna che
a risollevare le sorti di quello che rimane, dal punto di vista visivo e
registico, uno dei migliori esempi di cinema epico degli ultimi anni ci pensano
i duelli spettacolari di Kar-leong qui impegnato anche nelle vesti di attore e
le trovate tecniche di Hark, che dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, di
avere ancora pochi rivali quando si tratta di sedersi dietro una macchina da
presa e girare. Tre momenti su tutti: la suggestiva sequenza dei fuochi
celesti, l’assalto al feudo di Vento di fuoco e la resa dei conti finale,
valgono quasi da soli il prezzo di un mercoledì sera al cinema. Proprio questi
tre episodi dimostrano a mente fredda quanto la smania di progettare già in
partenza dei seguiti possa danneggiare un film, che inevitabilmente si
appiattisce quasi sempre sui difetti di una sceneggiatura cavillosa che si
svilisce cercando di escogitare espedienti narrativi per i vari Seven Swords 2,
3, 4, piuttosto di preoccuparsi di dare vita e respiro ai personaggi che
muovono le fila del racconto.
Tsui Hark, durante la sua gloriosa carriera, ha sicuramente fatto di meglio,
ora non ci resta che aspettare i cinque fratellini di Seven Swords, sperando
che questi non ci facciano rimpiangere la splendida epopea di Once Upon a Time
in China. La sensazione d’amaro in bocca a fine proiezione, è però difficile
da mandar via…
(25/09/05)