(Re)make(d) SILENT HOUSE di Gustavo Hernández vs Chris Kentis e Laura Lau
SILENT HOUSE (LA CASA MUDA)
REGIA: Gustavo Hernández
SCENEGIATURA: Oscar Estévez
CAST: Gustavo Alonso, Florencia Colucci, Abel Tripaldi
NAZIONALITÀ: Uruguay
ANNO: 2010
TITOLO ORIGINALE: La Casa Muda
SILENT HOUSE
REGIA: Chris Kentis e Laura Lau
SCENEGGIAURA: Gustavo Hernández, Laura Lau
CAST: Elizabeth Olsen, Adam Trese, Eric Sheffer Stevens, Julia Taylor Ross
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2011
“SI CHE CI SEI STATO. SICURO. IO NON DIMENTICO MAI UNA FACCIA.”
COSE PREZIOSE, STEPHEN KING
Esistono posti dove non sei bene accetto. Luoghi che non ti vogliono, popolati da qualcosa più grande di te. Prima ne esci, te ne liberi: meglio è. Il problema, un volta (ri)entrati, è proprio uscirne. La casa muda, e di rimbalzo il remake americano Silent House, racconta(no) una storia simile, dimenandosi negli spazi dell’archetipo architettonico per eccellenza: un’abitazione isolata, all’apparenza tanto tranquilla e distante dal caos sociale, quanto scricchiolante e sinistra. L’ambientazione ideale insomma, per far si che l’incubo domestico di Edgar Allan Poe prenda forma reale e concreta, commistionando al genere le orrorifiche derive umane. Qualcosa di più rispetto ad un semplice (e innocuo) esercizio di stile, probabilmente il definitivo punto d’incontro tra L’Arca russa di Aleksandr Sokurov, Una storia americana di Andrew Jarecki, The Hamiltons dei Butcher Brothers e Lovely Molly di Eduardo Sanchez.
STANZA NUMERO UNO: DEJA VU
Di casa infestate, stregate o possedute è ricolma la letteratura cinefila. Gustavo Hernandez utilizza la sua né più né meno come Neil Marshall si servì dei cunicoli sotterranei di The Descent: percorsi metaforici, affinché il dolore si realizzi, assumendo forme che non siano rimosso della psiche. A questa allegoria si deve la scelta del pianosequenza come unica strada registica percorribile, un movimento di macchina fluido, continuo, finalizzato a trasfigurarsi nella simbologia tecnica del cammino mentale intrapreso dalla protagonista. Principale pregio del prototipo, la sinusoide pianosequenziale si trasforma nel primo “difetto” del remake, vittima, sopra ogni altra analisi, di una costante sensazione di già visto. Ciò che catturava in La casa muda, viene accademicamente cartacarbonato in Silent House, clone privato e della fotografia asettica che raggelava, sporcandolo, l’originale e, sopratutto, di quella perizia squisitamente manuale che permetteva ad Hernandez di lasciar riposare l’obiettivo tra soglie, corridoi e specchi, facendo di La casa muda un portento prospettico, piccolo ma prezioso monile di geometria visiva capace di spaventare tramite ciò che (in fondo?) non c’è, o che si-vorrebbe-(sperare di)vedere-ma-non-si-vede. Al contrario Silent House opta per colori paradossalmente più caldi, in buona parte rinunciando a quello straniante “effetto notte” artificiale, che contribuiva a innervare di fascino superficialmente ectoplasmico La casa muda: a sua volta sorta di prigione della mente rinchiusa tra quattro mura, le cui simboliche sbarre venivano meno solo in presenza del lento, ma costante riaffiorare dei ricordi, una volta chiusi a doppia mandata nei cassetti turbati dell’animo.
STANZA NUMERO DUE: LA CASA SENZA ABBAINI
Malgrado le evidenti differenze formali, La casa muda e Silent House conservano inalterato il gusto per lo stravolgimento cronologico del fattore tempo. Fuori è giorno, dentro è buio. O quasi. Oscurità artificiale che di pari passo viaggia con le inesplorate profondità mentali delle protagoniste, entrambe costrette a ricordare, impossibilitate a fuggire. Giunte insomma, alla resa dei conti con loro stesse. La prigionia degli interni (sbarrati dall’esterno, quindi tanto tangibile quanto simbolica), viene inoltre giustificata “dall’arredamento” che circonda l’abitazione: il bosco nel modello (dunque alberi e ancora “sbarre”), il lago nel rifacimento (da sempre sfondo gotico in quanto chiuso. Almeno da Fogazzaro in poi). Trovate logistiche che confinano le protagoniste femminili in un condizione capace di (col)legarle involontariamente a quanto visto in La fuga di Martha. L’incipit voluto da Hernandez non a caso, (sembra) richiama(re) proprio uno dei primi passi compiuti da T. Sean Durkin: con Florencia Colucci scovata per la prima volta dalla macchina da presa proprio come accadrà ad Elizabeth Olsen in Martha Marcy May Marlene: sola, di spalle, vicino ad una casa nei pressi di una boscaglia. Parallelo quest’ultimo, che naturalmente finisce per accentuarsi in apertura di Silent House, quando proprio la Olsen ci viene mostrata nel ruolo che fu della Colucci.
STANZA NUMERO TRE: MEMENTO
Gustavo Hernandez prima, Chris Kentis e Laura Lau poi, inscenano un inno al cinema dell’essenza. Il primo sopratutto, rivela l’intenzione di travestirsi da Lumiere dell’orrore, quasi non sapesse che farsene di dialoghi o battute, interessato com’è esclusivamente alla (ri)presa diretta degli avvenimenti. L’inizio in medias res corrisponde al principale manifesto di intenzioni: boom! Dentro la storia. Prigionieri. Al buio. Soli. Doppia mandata. Finestre sbarrate. Ab ovo non c’è nulla che valga la pena ricordare, in quanto operazione destinata alle dinamiche del sottofinale. Atmosfera e ricerca. Entrambe le pellicole oscillano tra questi due estremi, gli stessi che La casa muda padroneggia con maestria. Da una parte l’ambientazione “illuminata” a dovere, dall’altra un gioco di musiche concentriche, che alternano funzioni centrifughe e centripete: i rumori naturali, di (s)fondo, abbracciano le note sinistre di un piano, che a sua volta cede il testimone a destabilizzanti carillon. Da meno non è l’alchimia con gli oggetti, come in Livide tra i principali dominanti della vicenda. Detto della “collocazione barricata”, giocano in essa un ruolo fondamentale lampade al neon, bambole di pezza, culle e macchine fotografiche. Centrale, a tale proposito, la sequenza di La casa muda che vede Laura intrappolata nel buio di una stanza (e noi con lei), intenta a farsi luce con i flash di una polaroid. Intuizione che permette a Hernandez di staccare i presunti modelli Rec e The Blait witch project: se da un lato continuiamo a dipendere come spettatori dal mezzo presente nella finzione (?), parimenti è evidente la distanza sia dal «Pablo registra tutto, maledizione!» di Angela Vidal, che dal «Se c’è qualcosa lo voglio su 16mm!» pronunciato da Heather. Dalla possibilità di poter riprendere tutto, si passa al tentativo, più analogico che digitale, di immortalare almeno una parte di ciò che avviene tramite degli scatti. Un processo visivamente frammentato, perché figlio di una lenta procedura della mente, che fa di La casa muda una presunta catarsi mascherata da (riuscito) esperimento cinematografico. Ciò che invece sfugge a Silent House, alla sua linearità persino metaforica, che alla raccolta di foto su un muro, preferisce un rosso scrigno di metallo, e alla recherche solitaria l’immaginaria presenza di uno spirito guida. Quella Sophia da sempre sinonimo etimologico di sapienza.