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TLE
A
SINGLE MAN
REGIA: Tom Ford
SCENEGGIATURA: Tom Ford
CAST: Colin Firth, Julianne Moore, Nicholas Hoult
ANNO: 2009
A CURA DI DARIO STEFANONI
UNA SOLA MORTE
Si è scritto molto, e in toni generalmente entusiastici, del primo film da
regista di Tom Ford, celebre
designer per maison d’alta moda come Gucci e Yves-Saint Laurent.
Che A single man, tratto
dall’omonimo romanzo di Cristopher
Isherwood, sia un’opera stilisticamente matura e originale è certo
sorprendente, tanto più che lo sguardo dello stilista non nasconde affatto le
sue velleità estetizzanti: ogni immagine è curata a puntino, ogni personaggio
leccato e pettinato a dovere, ogni situazione coreografata con elegante
compostezza, come una sfilata di moda. Sarebbe fin troppo facile pensare ad A single man come ad uno spot in forma
di lungometraggio, ogni singolo quadro pronto per la gogna del
Patinato&Pubblicitario, se non fosse che all’innaturale, divinizzata
perfezione dei corpi fa da contrappunto il sofferto minimalismo di gesti e
psicologie, il pathos raffreddato ma percepibile, vivo. E’ esattamente
in questo scarto tra eccesso (della forma) e pudore (del racconto), tra la
confezione leziosa e il dolore che ne è imbrigliato, che si nasconde il cuore
del film.
Tra i due estremi, a pesare sui sordi rituali quotidiani di un professore
omosessuale di mezz’età, vi è l’ombra unica di due morti: quella
del compagno amato per tanti anni, e la sua, un suicidio minuziosamente
allestito, poi goffamente rinviato, infine, quando sarà comunque troppo
tardi, serenamente tradito. Un’aurea mortifera che impregna di sé
personaggi e situazioni, che intacca persino l’immagine, spenta e
desaturata, incolore come il vuoto affettivo ed esistenziale in cui il prof.
Falconer scivola all’indomani della tragedia. Stretto tra due lutti,
uno passato e uno futuro, Falconer tenta di affrontare entrambe con lo stesso
rigor mortis, tanto nel superare il dolore della tragedia, amministrandone il
ricordo con apparente freddezza (ma intimamente macerandosi nel rimpianto ,
d’accordo con l’amica Charley che “Vivere nel passato è il
mio futuro”), quanto, dall’altra, nel pianificare metodicamente
il suo stesso suicidio, come ad addomesticarlo razionalmente per renderselo
più sopportabile (nel preparare gli abiti per la sepoltura non dimentica una
nota per la cravatta: “Fate un nodo Windsor”). Una delle scene in
questo senso più emblematiche è anche uno dei momenti psicologicamente più
fini e controllati del film: la telefonata in cui gli si comunica la morte
dell’amato Jack, tutta tesa (anche a partire dalla stessa immagine che
la incornicia: fissa, equilibrata, di un’armonia funerea) a contenere
la reazione emotiva entro frasi di circostanza, soffocate, monosillabiche e
neutre, come a non voler lasciar trasparire nulla della sofferenza di cui
Falconer, oltre che vittima, è anche l’unico testimone. E mortifero e
angosciante è anche quello che lo circonda: come vicinato gli spetta una
famiglia splendidamente e ipocritamente media, capace di celare sotto
l’affettata cortesia piccole e grandi mostruosità (se un ralenti ritrae
il figlioletto intento a smembrare una farfalla, altrove il diktat omofobico
del padre è delicatamente confessato da un accenno distratto della
figlioletta) e come Paese d’adozione -il prof. Falconer è inglese, come
Isherwood stesso- gli USA della
crisi missilistica di Cuba, asserragliati nel bunker emotivo del terrore
atomico (paura che per Falconer è sineddotica di ben altro: “Paura dei
comunisti, paura dei fianchi di Elvis, paura che l’alito cattivo possa
rovinarci le amicizie, paura di essere soli, paura di essere inutili”).
Un interstizio tra due morti capace di illuminarsi (letteralmente) di colore
solo quando Falconer rievoca il passato in fugaci preghiere di nostalgia che
sconfinano, a tratti, in una necrofilia dell’anima (confessandosi nel
commento al cielo rosato dallo smog: “A volte le cose orribili hanno
una loro bellezza”), o quando la speranza di un nuovo amore (con il giovane
studente) o di un’ intesa su cui contare (con la vecchia amica Charley)
sembrano alleviare la silenziosa disperazione che lo opprime.
A single man è precisamente quello
che si agita in questo breve e mutevole interstizio: la schizofrenica Tontentanz di George Falconer , una danse macabre pericolosamente oscillante tra i ralenti oppiacei della
morte che lo chiama, e, dall’altra, gli slanci luminosi di una vita di
nuovo possibile. Una morte schizofrenicamente abbracciata e negata,
romanticamente riaffermata (“La morte è il futuro”, si lascia
sfuggire nel chiacchiericcio da bar) e poi nuovamente superata (ergo,
accettata) e ricondotta circolarmente -e piuttosto forzatamente-
all’incipit. Oltre la potenza formale che sembra guidare la danza,
pulsante nella varietà di espedienti visivi (i ralenti tra il pacchiano e il
maestoso, i jump-cut, i viraggi inattesi), nell’accuratezza
costumistica e scenografica e nel cronometrato, impeccabile duetto di attori
(Colin Firth e Julianne Moore, di disperante fascino e intensità), A single man un’anima la
possiede eccome, e quest’anima è nera, amara, isterica e racconta di
solitudine, rimpianto, nostalgia, amore, paura e morte.
Con un avviso: cercare di incidere troppo a fondo la crosta
iconica del film per mettere a nudo l’anima di cui sopra, tanto nella
dissezione infastidita di chi non sente sua quella danza, quanto nella
distaccata revisione che può seguire ad una prima visione euforica*, rischia
di far sembrare quanto state guardando un’unica odiosa dittatura della
Bellezza cosmetica - persino quando questa stessa Bellezza dovrebbe farsi
Goffaggine (cfr. il balletto con Green Onions) – con l’atroce
conseguenza di perdere il filo delle passioni e di lasciare così la
sovrastruttura stilistica violentemente scoperta, con la musica calligrafica
e inutilmente pervasiva a gonfiare il vuoto improvvisamente venutosi a creare
tra gli sguardi luccicanti che, più imbambolati che erogeni, sembreranno
(ora) rimbalzare stupidamente come specchi riflessi per tutto il film, più o
meno come le (ora) tremendamente affettate intermittenze coloristiche. Vale a
dire: non fatelo. Perché questo è uno di quei casi, per dirla con von Hoffmanstahl, dove la profondità è
nascosta in superficie.
*
L’errore di chi scrive, motivo a cui si deve lo sviluppo incoerente, la
scrittura altalenante e la chiusa imbarazzante di quello che state leggendo.
(17/02/10)