SKELETON KEY

REGIA: Iain Softley
CAST: Kate Hudson, Gena Rowlands, John Hurt
SCENEGGIATURA: Ehren Kruger
ANNO: 2005


A cura di Elvezio Sciallis

PORTE, SPECCHI, E NEW ORLEANS SOTTO LA PIOGGIA

Impossibile parlare di Skeleton Key senza prima sbarazzarsi di quella che è diventata, contro ogni volontà produttiva o di regia, una presenza davvero ingombrante all’interno della pellicola.
L’intera vicenda è ambientata a New Orleans e dintorni e capita spesso di vedere la città sotto la pioggia, in un macabro gioco di coincidenze che fa di questo film uno degli ultimi documenti video pre-alluvione per quel che riguarda una delle località più affascinanti degli Stati Uniti meridionali.
E la pioggia scorre a fiumi lungo tutti i 104 minuti di questa sceneggiatura che gioca di continuo con luoghi comuni e stereotipi del genere horror per poi ribaltare felicemente alcune convenzioni e metterci di fronte a uno script in grado di brillare se confrontato con lo sconsolante panorama estivo del genere.

Skeleton Key parte come una consueta (e tutto sommato banale) variazione della favola di Barbablù per poi mutare lentamente in una morbosa incursione nei territori del voodoo (e dell’hoodoo) e virare infine nel campo della possessione vista sotto una luce particolare. Ci sono porte che non devono essere aperte e che, chiaramente, verranno spalancate e specchi tenuti coperti da lenzuola che verranno altrettanto scontatamente sollevate. Porte, specchi e soglie sono null’altro che mezzi di comunicazione fra ambienti e mondi, fra il naturale e il soprannaturale e Ehren Kruger, già fortunato sceneggiatore dei due Ring americani, gestisce con buona abilità il gioco a nascondino con lo spettatore che rimane infine incapace di capire se determinate barriere, segni e circoli magici servano a tenere fuori il Male o, piuttosto, a imprigionare la nostra (ir)razionalità dentro prigioni e binari ben precisi.
Visivamente Skeleton Key appartiene completamente alla rinnovata tradizione del new southern gothic, con la sua vegetazione lussureggiante, le paludi, le antiche magioni a contrastare le catapecchie della gente nera, il blues che gioca a rimpiattino (ed era ora) con l’hip hop quasi a suggerirci un ideale trait d’union fra i due generi musicali. Intelligente lavoro da parte di John Beard e dei suoi collaboratori che scelgono per la casa dei Devereaux una tappezzeria raffigurante piante di palude, facendo così straripare la natura anche all’interno degli spazi artificiali. Iain Softley, di ritorno alla regia dopo quattro anni di pausa (lo ricordiamo in K-Pax, 2001) amministra tensioni e morbosità con una sintassi ricca di controcampi e plongée e gli ormai obbligatori bus sono pochi e somministrati al pubblico con maggiore intelligenza del solito.
Persino quel che è ormai il momento più temuto all’interno di certo horror hollywoodiano, ovvero la spiegazione pseudo razionale dei perché e dei percome con tanto di cronaca storica della nascita del Male, è qui finalmente e pienamente funzionale ai fini della trama e della sua risoluzione. Riuscita (perlomeno più della media) anche la trattazione psicologica della protagonista: abbiamo finalmente una eroina buona ma con sfumature e comportamenti sgradevoli e a tratti antipatici.

Skeleton Key è in grado di regalarci alcuni momenti quali non si vedono facilmente nelle produzioni americane di questo tipo: la protagonista femminile NON vive una storia d’amore con nessun maschio presente nel film, una macchina lanciata in piena corsa contro un cancello NON riesce a sfondarlo e l’insegnamento (im)morale del film è che il Male predomina e ripaga chi segue le sue oscure vie. Tre elementi che, nel buonismo e faciloneria facilmente imperanti in questi anni, valgono da soli il prezzo del biglietto di una pellicola lungi dal potersi fregiare del titolo di capolavoro ma in grado di regalare un’ora e mezza di spunti interessanti per gli appassionati del genere. Aggiungete a tutto questo una colonna sonora (geneticamente) eccezionale (spunta persino il buon Robert Johnson in persona con Come into my kitchen) e avrete motivi a sufficienza per andare a vedere quella che in effetti si potrebbe definire una storia di “amore” che oltrepassa i confini dei secoli.

(25/09/05)

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