I SOLITI SOSPETTI di Bryan Singer
REGIA: Bryan Singer
SCENEGGIATURA: Cristopher McQuarrie
CAST: Kevin Spacey, Gabriel Byrne, Benicio Del Toro, Stephen Baldwin, Kevin Pollack, Chazz Palminteri
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 1995
USA/GERMANIA 1995
“La beffa più grande che il Diavolo abbia mai fatto è stata di convincere il mondo che lui non esiste”
Charles Baudelaire
L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI SOZE
Cinque criminali in fila per un confronto all’americana: è partito tutto da lì, da quella che è diventata l’immagine-simbolo de I Soliti Sospetti (The Usual Suspects), poiché è proprio da quest’idea visiva balenata nella mente dello sceneggiatore Christopher McQuarrie (collaboratore abituale di Singer in gran parte dei suoi lavori) mentre si trovava in coda davanti al botteghino di un cinema, che è nato lo spunto per quello che è considerato un film fondamentale nella cinematografia statunitense degli ultimi anni, un’opera spartiacque che è divenuta modello di un nuovo modo di rileggere (e stravolgere) le convenzioni del noir. Secondo lungometraggio di Singer, dopo il buon risultato dell’esordio con Public Access, I Soliti Sospetti affonda le proprie radici nella tradizione, ossia nel cinema americano classico, in quelle che sono le regole e gli stilemi della sceneggiatura del noir hollywoodiano, per poi rimescolarle e collocarle in maniera diversa, con un risultato che spiazza e sorprende lo spettatore. Si vedano, in primis, le unità di tempo e luogo, scandite da didascalie che collocano la narrazione in tre ambiti spazio/temporali diversi: si comincia con «San Pedro, California – la scorsa notte», dunque da quello che in realtà scopriremo essere l’epilogo della vicenda, ossia l’incendio al porto, cronologicamente vicinissimo, per proseguire con la seconda, la più importante: «New York – sei settimane fa», segmento fondamentale nel quale ci viene mostrato il momento dell’arresto dei cinque protagonisti, il confronto all’americana che è uno dei perni del narrato e la presentazione dei personaggi tramite la voce narrante di Roger “Verbal” Kint (un Kevin Spacey a dir poco strepitoso, attorno al quale si sviluppa l’intero plot, che per il ruolo portò a casa un Oscar). L’ultima delle tre entità di spazio/tempo ci riporta al qui e ora del racconto :«San Pedro – oggi» , con quindici cadaveri carbonizzati e due superstiti, uno in coma, l’altro “uno zoppo di New York” (inutile dirlo, Verbal Kint). Da questo momento in poi gli snodi avvengono tra flashback e presente, senza bisogno di puntualizzazioni: questa è la prima destrutturazione del meccanismo del classico gangster movie, illudere lo spettatore di trovarsi di fronte a un’esposizione di stampo tradizionale, nella quale i cambiamenti cronologici e di ambientazione sono chiaramente sottolineati, un’ingannevole rassicurazione riguardo all’identità di ciò a cui si sta assistendo. Uno dei punti cardine del cinema di Bryan Singer è che nulla è ciò che sembra, e I Soliti Sospetti ne è l’esempio non solo più lampante ma anche più scopertamente analizzabile: la carte vengono rimescolate di continuo, in un gioco disorientante che può portare all’unica soluzione possibile, il colpo di scena finale, uno dei twist narrativi più riusciti e meno prevedibili che si siano visti sullo schermo da almeno trent’anni a questa parte.
L’altro elemento portante del noir USA anni ‘40/’50 a cui McQuarrie si rifà nella stesura dello script è la caratterizzazione dei personaggi, poichè ognuno di loro incarna quello che potremmo definire un “enneatipo filmico”, una tipologia psicologica (e fisica) precisa: “il capo” (Dean Keaton, un grande Gabriel Byrne), “il pazzo” (McManus, interpretato da Stephen Baldwin), “il violento” (Todd Hockney ossia Kevin Pollack), “il ribelle/disadattato” (Fred Fenster, il magnifico Benicio Del Toro), e infine “l’outsider”, lo storpio e apparentemente stupido, quel Roger “Verbal” Kint che sommessamente tira le fila di tutta la narrazione. Anche in questo caso, lo sceneggiatore cambia le regole, tornando al discorso Singeriano del “nulla è ciò che sembra”: il capo è solo un’apparenza e chi rimaneva nell’angolo, con la sua camminata claudicante, fingendo paura, stupore, idiozia, diventa l’elemento chiave, colui che nessuno avrebbe mai sospettato.
Kayser Söze è nome profondamente evocativo costruito da McQuarrie con l’ausilio di un dizionario inglese/turco: il suono germanico rimanda al concetto di sovrano assoluto, imperatore, e quel Söze è di per sé indizio, in quanto l’appellativo del personaggio può essere a grandi linee tradotto come “imperatore chiacchierone”, e Kint si è guadagnato il soprannome di Verbal per la sua tendenza a parlare troppo. Parola come simbolo, significante supremo in una pellicola in cui il linguaggio assume una valenza concreta, che si può definire fisica nella delineazione dei caratteri e delle situazioni (le parole di Fenster, ad esempio, sono quasi incomprensibili nel suo continuo bofonchiare): la figura di Kayser Söze acquista un’aura mitologica nel corso del plot, che si rafforza semplicemente con l’uso dell’espressione verbale, alla stregua delle leggende tramandate oralmente, radicandosi in modo inesorabile nel nostro immaginario. Un appellativo, due semplici sostantivi, che stanno a rappresentare il concetto centrale della poetica del regista, vale a dire il Male, nella sua accezione più profonda e definitiva. Il cinema di Bryan Singer, infatti, è un ampio e approfondito discorso sul coté maligno dell’essere umano, sull’oscurità che permea quelle zone dell’anima che cerchiamo sempre di celare agli sguardi altrui. Un Male già presente in Public Access, che assumerà le spoglie del diabolico storico per eccellenza, il nazismo, ne L’Allievo e in Operazione Valchiria, e che in questa pellicola raggiunge la sua apoteosi espressiva, dipingendo Kayser Söze come “il diavolo in persona”, mitizzandone le gesta attraverso un flashback che lo vede guerriero epico, personaggio che è probabilmente solo una leggenda tramandata tra criminali ma che è terrificante sopra ogni altra cosa («Non credo in Dio ma ne ho paura. Beh, a dire il vero ci credo, ma l’unica cosa che mi spaventa è Kayser Söze», dice Verbal al detective Kujan, l’ottimo Chazz Palminteri, nel corso dell’interrogatorio che attraversa il film e che è primo, grande indizio di quello che sarà il twist dell’epilogo) .
Emblematica la citazione da Charles Baudelaire, che dona ulteriore vigore alla natura demoniaca e sovrannaturale del personaggio di Söze, ambiguo fin da prima della sua rappresentazione: Singer disse a ognuno degli attori principali che avrebbe interpretato il ruolo cardine, con successivo grande disappunto di Byrne; la mitizzazione ha dunque luogo a partire dall’extradiegetico, dagli albori della lavorazione, generando così il medesimo senso di spiazzamento provato dallo spettatore.
Il celeberrimo finale, la rivelazione che rovescia il modo in cui l’intero film è percepito (le visioni successive alla prima, infatti, saranno inevitabilmente condizionate dalla consapevolezza) è da manuale di cinema, in un gioco di campi e controcampi, parole che tornano alla mente di Kujan, la geniale chiusura di un cerchio costruita anch’essa sull’espressione verbale, su singoli vocaboli apparentementi insignificanti che, improvvisamente, assumono un’importanza assoluta.
Una pellicola che può essere definita seminale nella concezione del noir moderno, modello visivo e narrativo che ha influenzato molti epigoni successivi, spesso definito “meccanismo a orologeria”, in realtà composto da cerchi concentrici che conducono a quello che è il cuore oscuro dell’opera: l’identità di Kayser Söze.