SONATINE
REGIA: Takeshi Kitano
SCENEGGIATURA: Takeshi Kitano
CAST: Takeshi Kitano, Aya kokumai, Tetsu Watanabe
ANNO: 1993
A cura di Alessandro Tavola
BEAT LE FOU O IL KITANO DELLE UNDICI
Sonatine
quarto film e già librazione più alta di Takeshi Kitano,
che rivendica insieme il sentirsi Autore e la semplicità in ciò
conflittuale ma comportata, la determinazione a voler fare un
certo film e contemporaneamente sentirlo come poco,
il narcisismo celato a piccole somministrazioni nellego che
nella (finta) modestia ha il proprio segreto realizzativo quanto
nellumiltà (misantropica); cioè Primo CapoLavoro, che
tale è quindi Il, coscienza di status e desiderio, lucidità
finalmente considerabile estrema quanto lo sarà in futuro, sia realizzativa
che sulla propria figura di realizzatore, nel momento in cui
fobie e vezzi si solidificano come (nel) Cinema quando un film è
storia di sè stesso. Perché Kitano da() sempre
laria di chi se ne fotte allinterno di una
meditazione, miscuglio sovrapposto, come riesce a far brillare di
perfezione (col perfezionismo) la libertà, evocata o rincorsa.
Un
gruppo di sbandati, qualche ragazzino violento, un grande yakuza
che era già intenzionato a smettere, poi una prostituta: in
missione loro sfuggono a una trappola, lei a uno stupro. La fine
del tragitto è stata raggiunta, niente vale più il tornare
indietro, non cè nulla guardando avanti, solo il mare
della spiaggia in cui si rifugiano, e la vendetta. Ma cè
anche una troupe cinematografica, con a capo un uomo che nel film
vuole plasmare
Vuole fare il film, questo basta, come basta
immaginarsi quale universo di angosce, timori e sogni ciò si
porti dietro: non resta che girarlo, e il montaggio.
Questo
doppio binomio è nuclei con elettroni come soli con pianeti: il
narrato di Sonatine, della sua mdp, del film stesso e del suo
autore sono un unico tentativo vincere sulla vita, dellastrarvisi
in una liberazione che sente di dover essere estrema, tempestosa
ma quieta, unago sottile e la dose di veleno che si porta
dietro, una fuga immobile che cerca laffievolimento, non
senza spasmi; la storia di una domenica che scarica il peso della
settimana passata ma che non vede un lunedì nuovo; la dinamica
di una disintegrazione, umana perché viva prima di tutto nella
mente. Così come un film è film solo una volta montato, ad arco
produttivo concluso; un uomo è uomo quando è morto e la vita si
può dire completa(ta) inesorabilmente. Un brutto movie, un
persona mediocre o, meglio, la sensazione di fallimento.
Magari si può dire sia ovvio considerare metafore in questa maniera, spesso lo è, ma qui è consapevolezza, forte in Kitano e nel suo personaggio Aniki: Il titolo è del film ma non ne fa parte, ne è etichetta trasversale; quanto 8 e mezzo era semplice progressione numerica, mancanza di idee parlando di mancanza di idee, e Brazil nonsense sul nonsense sociale, Sonatine sta in «Imparando a suonare il piano, uno studia varie tipologie di brani. Quando poi la conoscenza basilare di quei brani viene acquisita, uno ha raggiunto una sonatina. Non è propriamente controllo, ma segna la fine del primo stadio dapprendimento.» come detto dallo stesso T.K.
In
Sonatine vè ciò che precede e contiene quello che
di lui può essere considerato il Tutto, la complessità della
totalità dei tratti della Poetica (termine odioso quanto
calzante) nella semplicità discorsiva, appunto una sonatina, che
dà listintivo in poche note, in scale semplici o in una
storia, più precisamente un(o) (s)lancio, che permette ai suoi
elementi di brillare puramente, punto medio tra la maestosità
vista nei riferimenti ammirati, senza la pretesa di raggiungerli,
e la disinvoltura del gioco. Non solo: un pesce infiocinato,
immobilizzato, morto (forse sì, forse no) e la sua immagine che
si disfa in decine di petali rossi; poi il titolo, rosso
anchesso: questo è linizio, questo è ciò che
accadrà.
Dilettevole
giocare coi canoni quasi scolastici, che dedicano al primo
(unico, accademicamente) plot esattamente i venti minuti iniziali
e nulla più, spezzati da un «Benvenuti ad Okinawa» che è un «Addio
a tutto il resto», linizio netto fuggitivo, metà voluto e
metà obbligato, dal tempo (rimpianto, preoccupazione, speranza)
e dallincertezza di un mazzo di personaggi-figur(in)e di
rudezza, professionalità, paura, ignoranza, semplicità (:
emozioni).
I
pensieri di Arizona dream (che è sempre del 1993), i
passi di Pierrot le fou: tutti giocano, su quella
spiaggia. Si prendono in giro, litigano, si fanno scherzi,
nonnismo che fa lavare i giovani sotto la pioggia e diventare
reale la lotta degli uomini di cartone, fuochi dartificio esplosi
in maniera impacciata, freesbee, parodie del kabuki e cè
anche il modo di innamorarsi, forse. È il tempo dellattesa
riempita, i pensieri liberi di un autobus che va alla gogna, che
semplicemente sa di dover aspettare, anche se non sa cosa. La
spensieratezza regna, non quella incantata infantile
sarebbe impossibile ma il rilassamento della fatuità,
dello svago, del frivolo fanciullesco: subiti i pesi, la
leggerezza diviene la cosa più importante e la morte e la paura
ci sono, persistenti, che ancora presentissime esplodono nel
sangue e nel rallenti, ma non contano più nulla ora che vengono
guardate dallalto verso il basso, adesso strumento e non
più padrone, sempre facenti parte del gioco dei gangster. Aiki
lo sa, «Sono veloce a sparare perché sono veloce ad avere
paura.», deridendo i suoi con una roulette russa a tamburo
scarico, consapevole portavoce e leader e trasmissione diretta di
idee per dialoghi trasparenti; il solo ad avere, nellabisso
in cui si sono ritrovati, ancora una missione e la capacità di
portarla a termine perché nel suo viso non sa se abbia una
coppia di sette o un poker dassi e il nervosismo e i timori
non traspaiono se non addomesticati: angelicamente è diavolo, a
intermittenza, che nel monolitico di volti e inquadrature viene e
trascina nel dubbio sottomissione e senso divino, di fato o
autobiografia dei personaggi e degli spazi visivi di una macchina
da presa che gioca, rimanendo immobile e fingendosi pavida e
raggelata da chi (e ciò che) ha di fronte mentre al momento
giusto parte, fosse per un carrello o per un improvviso stacco,
carica della propria onniscienza brillante, fatta post-comica e
post-drammatica, occhio anestetizzato sul fare delle persone,
visto pietoso ma necessario, mentre dalla vita dei personaggi si
passa al bilico, dallesperienza al ricordo e poi al dejavù,
al sogno di ritrovata, finalmente irrimediabile, serenità senza
dolce e senza amaro.
Le
espressioni non cambiano, si muoia o si stia uccidendo, un
braccio teso con la pistola e laltro lungo il corpo, cancro
allegro o Melodie mortelle (il titolo francese) dove le
locuzioni sono innecessarie, le cose nel non essere
più o perlomeno vi tendono, a questa generale posterità
assoluta: personaggi senza vita ma con vitalità, ora dediti
allesistenza spogliata che Sonatine circonda di blu,
marino e delle musiche di Joe Hisaishi, leit motiv umido,
freddo, notturno prima e di suoni estivi, con lestate come
stato danimo, di una ballata collettiva poi. Poi, è questo
il metro di tempo.
Sonatine
è un film sulla pace, che dopo i titoli di coda è una spiaggia
senza uomini.
(15/11/07)