LA SOTTILE LINEA ROSSA

REGIA: Terrence Malick
CAST: Sean Penn, George Clooney, Adrien Brody
SCENEGGIATURA: Terrence Malick
ANNO: 1998


A cura di Andrea Fontana

QUANDO L’ETERNO SI FA CINEMA

Con l’ingresso degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, si aprì un nuovo fronte, quello nel Pacifico, che vide scontrarsi la potenza americana con quella giapponese. La battaglia di Guadalcanal è stata fondamentale ai fini della guerra ed è raccontata nel terzo film del regista texano Terrence Malick, La sottile linea rossa, il cui precedente lavoro risale al 1978, I giorni del cielo.
Mi innamorai del cinema vedendo La sottile linea rossa. La sua potenza visiva, la capacità di veicolare emozioni, spesso eteree, nell’immagine, assolutamente ricercata, mi aprì gli occhi sul cinema e su cosa esso dovrebbe essere. Non era tanto il cast stellare a colpirmi, ma gli spazi aperti, che sfuggivano ad una claustrofobia esistenziale ormai stratificata nell’assetto della società contemporanea. Non era la rappresentazione (perfetta) della guerra, dei suoi effetti, dei sentimenti che faceva (fa) emergere nell’animo umano a stupirmi, ci aveva già pensato lo sbarco in Normandia spielberghiano, ma il connubio parole-immagini-suoni-musica a stordirmi. La bellezza che trasuda da La sottile linea rossa è qualcosa di ancestrale, qualcosa che forse richiama l’idea di cinema di Mèlies, qualcosa che sfugge alla mente umana ma non all’occhio, non allo spirito. Malick lo sa, ne è consapevole e lotta continuamente per portare avanti tale concezione. Il ricordo, dalle atmosfere oniriche, diventa nel film la via di fuga da una realtà opprimente e oscura, che ti costringe ad uccidere un uomo senza motivo, se non quello stupido dell’ideologia (magari neppure tua, ma del sistema). Ma Malick non fa politica, non l’ha mai fatta, se non per quel riguarda il suo stile di vita, ossessionato dalla dimensione privata dell’essere, perennemente contro la prospettiva pubblica e distorta, deviata dai media. Addirittura la Storia (così importante per un genio quale Alan Moore) lascia il passo alle storie dei singoli personaggi, che vanno a formare un enorme labirinto chiamato vita. Le strade che percorrono il film sono tante, l’amore, la vita, la morte, Dio, la spiritualità. Ma come i grandi autori del cinema sanno (vedi Kubrick in primis) è necessario esaltare le domande, piuttosto che fornire le risposte. Perché la vita è una domanda continua, è costantemente giocata sul dubbio esistenziale, che ci (so)spinge verso un indeterminato altrove.

Ogni inquadratura di quest’opera è punta alla perfezione, ogni immagine racchiude in sé l’eterno spirituale, con esaltazione anche dalla fotografia di John Toll, che ha messo in mostra i colori naturali del paesaggio. Il tema principale del film è la ricerca di Dio in ognuno di noi. Malick non parla per metafore o allegorie, ma si esprime per immagini, ultima istanza di riflessi esistenziali, nelle quali la sceneggiatura (con particolare attenzione alla voce off) fa da contorno, a metà strada fra la poesia (visiva) e la filosofia (Malick ha insegnato ad Harvard ed è esperto dell’opera di Heidegger).
Il coro che accompagna i quadri stordisce, non si distingue chi parla, il valore dei personaggi è sminuito dalla fluidificazione che l’autore realizza nell’opera. Una mescolanza che trova spazio anche nel connubio di immagini e suoni, musica e parole. Il cinema, insomma.
L’attenzione del regista per la natura e per ogni suo minimo dettaglio esalta gli effetti che lo scontro di civiltà ha avuto su di essa. Si pensi all’incipit del film (inventato da Malick stesso, poiché nell’omonimo libro di James Jones non esiste), che ritrae Witt e un amico rifugiarsi in un villaggio di autoctoni. Qui essi vivono semplicemente, dimenticandosi del male, del mondo. Dopo le battaglie e i suoi orrori, Witt torna nel villaggio, mezzo abbandonato, nel quale gli abitanti litigano e si spaventano per la sua presenza. La pace è stata inevitabilmente turbata. Una lacrima scorre sul volto del protagonista, che pure ostenta un sorriso di speranza. Tema, questo dello scontro di culture, di mondi tragicamente diversi, che torna prepotentemente in The new world, ultima fatica (quarta in trent’anni di carriera) del regista.
Quando Witt muore, l’immagine successiva alla sua caduta è lui che nuota con i bambini di quel villaggio, per poi scomparire per sempre, mentre i fanciulli continuano a giocare la loro vita, ancora ignari del male del mondo, ancora immersi nell’ingenuità che li contraddistingue. Ad inizio film egli spera di trovare nella morte la stessa pace che ha intravisto nel decesso della madre. Non paura, non terrore, solo pace. Witt aspira ai suoi giorni del cielo, dopo aver consumato la rabbia giovane.
Così sarà.
Infatti le ultime parole del film sono:

Oh Anima mia,
fa che io sia in te,
ora.
Guarda attraverso i miei occhi,
guarda le cose che hai creato:
tutto risplende.


Ancora uno sguardo sul mondo, prima che il nero ricopra tutto.

(15/01/06)

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