SPIDER-MAN 3

REGIA: Sam Raimi
SCENEGGIATURA: Sam Raimi, Ted Raimi, Alvin Sargent
CAST: Tobey Maguire, Kirsten Dunst, James Franco
ANNO: 2007


A cura di Alessandro Tavola

IL RAGNO CADDE E L’UOMO SI SVEGLIO’. NON C’ERA LUCE FUORI

Il film più costoso di sempre, senza contare l’inflazione e che in euro il discorso ora come ora cambierebbe, ok.
Il blockbuster più atteso, che difatti con la sua (sorprendentemente) anticipata uscita italiana ha frantumato (questo non troppo sorprendentemente) i record, ok.
Un imporsi quasi virale tra distribuzione, merchandising e spin-off ludici e mediatici, ovviamente obbligati, stando a quanto detto sopra.
Fattori collaterali, ma estremamente legati e influenzanti alcune caratteristiche del film, pellicola dell’incerto, in quanto sotto gli occhi e gli indici di tutti, estimatori e non, e del mistero, trattandosi del nuovo Sam Raimi’s Spider-man, da subito culla di curiosità, visuale d’oblio dalle qualsiasi possibilità, venendo dopo il capolavoro che era (è) Spider-man 2.
Tra un possibile (e plausibile) rigiramento di frittata e un gigioneggiare visivo (accettabile) la risposta alla domanda “come verrà a continuare il discorso di quelli che erano due film di e sull’amore?” è stata, semplicemente: parlando di tutto ciò che non lo è.

Shortcuts

La prima parola è: spiazzante. La seconda è: controcapolavoro. O anche: paracapolavoro.
Spider-man era un film sulla (maledetta, pesante – “talento e maledizione” appunto) Consapevolezza, Spider-man 2 sulle (obbligate e poi meditate) Decisioni, delle loro positive conseguenze e della fluttuante quiete psico-fisica derivante.
«Come ogni storia che valga la pena di raccontare è riguardo una ragazza.». Questa era l’apertura del primo capitolo, voce off riguardo una rossa Kirsten Dunst che sarebbe stata fulcro/(e)motivo nonchè cornice narrativa (di distanza sociale e poi decisionale nel 2002 e di contatto dal contemplativo allo psicofisico nel 2004); una centralità che qui viene a cadere, non in una variazione sul tema ma nuovo capitolo, deciso allargamento di campo, cronologicamente, realisticamente, sostanzialmente necessario nell’attaccamento ai personaggi e al loro mondo da parte di Raimi, che qui per la prima volta (a pieno diritto) appare accreditato anche in soggetto e sceneggiatura; script che vuole tener fede ai canoni del fumetto e arricchire nella miglior maniera possibile un quadro cinematografico che sarebbe potuto essere l’ultimo, giungendo così a diventare uno sguardo grandangolare collettivo in cui come ormai detto banalmente ma giustamente da molti “c’è troppa carne al fuoco”, mentre noi semplicemente diciamo “molta”, in quanto Spider-man 3 è principalmente un film corale in cui la centralità di Peter Parker cade e la sua componente “super” diviene una di molte e quasi annullata, a far cadere la sua specialità e le sue giustificazioni, che cadono nell’egoismo, nei rimpianti e nei rancori senza che essi siano unici ma semplicemente umani, andando a rompere il crogiolo amoroso con cui fin’ora gli altri personaggi erano tenuti come appendici, in una frantumazione della singola molteplicità per la molteplice singolarità che fa sì che 3 sia un film corale che parla non più delle diverse necessità di uno ma dei singoli Bisogni di molti, in cui l’Uomo Ragno è vertice quasi senza priorità in una piramide di umori e dissapori che pare Allen spesso e Tutti dicono I love you quasi sempre.

Non si inizia con Lei, M.J, ma con Lui, eroe popstar e studente modello, amato dalle folle, con le prospettive di un matrimonio con la donna che ama e quindi, finalmente, vincente – pienezza di sè, che non tarda a sfociare nella cecità e nell’avidità, nel tentativo/istinto/bisogno di preservare la propria posizione, la propria pace, il proprio equilibrio vitale e, per tutto ciò, andando contro i più generali buonismi, non dedicandosi ai problemi della propria donna caduti per lui in secondo piano, mentendo al (non più)ex-amico Harry (poi Goblin), cercando vendetta contro l’assassino dello zio (poi Sandman), non esitando nello sputtanare il rivale fotografo Brock (poi Venom) e a sfruttare la bionda Gwen Stacy la cui unica colpa è forse quella di essere troppo frivola. Germe maligno da cui parte la ra(i)mificazione.
Rivoluzione che sfocia in totalitarismo la storia di Peter Parker, che negli eventi perde il suo diritto di protagonismo e d’empatia facendo cadere anche il più semplice concetto di villain in un intreccio in cui tutti hanno sia torto che ragione, abusi e motivi, maliconia incodannabile e disprezzo (provato e subito) inappellabile: l’istinto di Peter, l’angosciante senso di solitudine di Mary Jane, l’ammorbamante croce da cui si sente trafitto Harry, la sporca ghettizzazione di Flint Marko, la gioviale ambizione di Eddie Brock proprio da Parker schiacciata – Ventaglio di sentimenti e situazioni dalle dinamicità insindacabili, molteplicità di sfaccettature che in realtà sono proprie di un unico animo, quello umano, che si scinde, in termini visivi e narrativi, nell’equa oscurità che pervade ogni immagine e ogni personaggio, quell’anima nera (lato oscuro della forza direbbe qualcuno con troppa mollica cerebrale) che era Darkman, che di questa serie è sempre stato anacronistico riassunto grafico ed ideologico; forza negativa che prevale, visceralmente e semplicemente, eccipiente.
Spider-man non è un’idea statica come è Batman che come nasce muore; è avvicendarsi di (form)azione che partì dal sognare adolescenziale e giunse al realismo/romaticismo tinto di grigio senso di vocazione e che ora approda all’età adulta, in cui tutto è al di fuori della puerile ricerca della felicità e anzi si tratta di dover ottenere il “meno peggio” e ogni scelta suona drastica e definitiva; i sogni si infrangono e il gioco non è più gioco. L’eroe è caduto o comunque secondario, mera carriera, ora rimane l’uomo, gli uomini, tant’è che nel 2 versus 2 non v’è tifo empatico e fazioso, ma solo ricerca di uno degli equilibri possibili, nessuno dei quali ideale; non bene o male ma semplicemente un concludersi al di sopra delle parti.
Fatti di spirito che sovrastano quelli di cuore, Christopher Young che copre Danny Elfman, le cui trombe aprono sì (sui titoli di testa/riassunto, in maniera amabilmente sgangherata) ma che pian piano scompaiono e ai suoi toni romantici e favolistici si sostuiscono quelli funerei e quasi militareschi della presa coscienza.
Che è maturità, ma soprattutto amarezza.
Il nerd che fece il nancyboy adesso è grande.
I’m thru with love, I’ll never fall again…

Taglio repentino, quasi capsulare, di scena in scena, treccia classicista di eventi, puntiglioso sovraggiungere di avvenimenti, a volte in maniera fin troppo netta e sentita, probabilmente (anzi, sicuramente) per questioni prettamente di durata che però sono stesse della natura dell’essere film, che nel suo comprimere in 140 minuti non spreca un singolo fotogramma, facendo sì che in questo principio di non ripetitività ogni momento possa essere Il momento, sia che si tratti di sipario comico, emblematic di un personaggio, esplosione di (mai solamente) spettacolarità, duello o avanzamento di storia; mai un riempimento di buchi, che anzi non sussistono in partenza.

Essenzialità e onomatopeicità

Massima (ri)espressione di Raimi che magistrale direttore di essenzialità e onomatopeicità è sempre stato; padrone di quello spirito dinamico-cromatico di interconnessione immagine\sentimento quintessenziale del cinema (e delle arti visive nel complesso), del suo essere sensazioni e stupore prima di tutto di immagini e suoni che di parole e storie: se in La casa era tensione cinetica da macchina da presa, ne L’armata delle tenebre puro protoslapstick, in Soldi sporchi ammaliante torpore di luoghi e d’attori e in Darkman il mescolarsi di questi fattori con l’aggiunta, appunto, della pirotecnia action-fumettistica, Spider-man 3 di tutto ciò è l’esplosione massima illimitata, nel budget stratosferico, nella piena libertà creativa (sempre crescente in tutta la trilogia) tra gli argini del PG-13 (che più che un limite castrante è semplicemente uno stuzzichevole obbligo, in quanto è nel momento in cui non si può far vedere uno squarcio che entrano veramente in gioco la regia e il montaggio per far sì che esso si senta) risottolineando quello che già si era capito con 2, ossia che Sam Raimi è uno di quei pochi registi, forse l’unico, che nel trapassare dal totalmente indipendente al most expensive movie ever è riuscito a mantenere quasi intatta e totalmente coerente le proprie idee su e le sue modalità di creare un Cinema fatto propriamente del Cinema stesso, vorticoso, avvolgente e sincero, dall’inorpellità del plot alla folgorazione degli istanti fino alla totale (s)peculiarità di pensieri e immagini propri dell’intreccio pop-fumettistico, tutt’uno con quelli che erano e sono i comics e la fantascienza più anni ’60 fatti di improbabili esperimenti e mutazioni e coincidenze (e c’è chi ancora cerca “coerenza” col reale... Neanche un «Vaffanculo» per loro) in cui la crudeltà parassitaria è il simbionte alieno che letteralmente arriva come una manna dal cielo, splendidamente combaciante con l’insorgere degli eventi – magia delclassicismo; la gioia originale dell’essere (o diventare) Spider-man è sempre dell’inespressione sfigo-intelluttal-adolescenziale, la tristezza e il disfacimento si fan lacrime di sabbia e la vendetta è nera, nerissima, inchiostro; e in cui, soprattutto, non v’è differenza tra i due lati di ogni (super)personaggio, in ognuno dei quali i poteri, i modi e l’aspetto visivo sono indissolubilmente propri del loro stato d’animo - metafore di loro stessi, appunto, onomatopee di sentimenti, le identità non sono celate ma mutate, in cui due tizi appesi a centro metri d’altezza si chiamano per nome e cognome. Poetica di Stan Lee che il Cinema stesso e Raimi han sempre posseduto e che quest’ultimo solamente è riuscito a rendere (Ang Lee ci era andato vicino con Hulk, cercando però carne intorno a un concetto che era nato osso; Bryan Singer c’aveva provato con gli X-men ma s’era perso per strada e Tim Story... Lasciamo stare) e addirittura ampliare, riproponendo gli incantevoli tuffi d’azione sottovuoto che già in Spider-man 2 parevano aver toccato vette difficilmente riottenibili, al massimo imitabili, e qui invece rigenerate; la “nascita” di Sandman puramente musicale, l’intercorrere del simbionte, la redenzione del Goblin, gli urli acrobatici di gioia o i volteggi pensosi. Momenti di drammatica interazione umana sempre intensa, e non solo di effetti speciali, anzi tutto il contrario, visto che il bilancio tra action/nonaction è assoluto, magari non cronometricamente, ma emotivamente.

È questa la vera forza di Spider-man 3: in questo amore registico per i personaggi e il loro mondo interiore ed esteriore, ogni scena chiave (quasi tutte), sia essa costituita da computer grafica, dialoghi in campo controcampo o montaggio fotogrammatico, possiede una completa e devastante carica emozionale che prescinde dalle altre modalità, completamente devota e pura, follia cromatica o sguardo languido, un bacio che non si sarebbe dovuto vedere o un distruttivo combattimento tra le mura domestiche.
E Bob Murawski da divino ora diventa dio di questo, non montatore versatile ma artistartigiano delle immagini, tra serie di stacchi come se si trattasse di un mitragliatore e non di una moviola e indugi sentimentali, proprio lui che il cinema artigianale lo ama e di cui, assieme a Raimi off course, lo si può considerare uno dei maggiori eredi.

Come la frase più semplice e veritiera ha bisogno di una voce che la pronunci nell’adeguata maniera, proprio le storie meno complesse (non “sceneggiatura di ferro”, qui c’è tutt’altro) vogliono un occhio che ne prenda e dipinga l’animo, che faccia di un nome un volto, di una parola un colore, di un’idea un’anima: Sam Raimi.
Spider-man 3 capolavoro del rappresentante e del rappresentato.
Inarrivabilità? Lo si diceva anche del 2...
Si vedrà, anche se per ora, dopo sette anni, voteremmo per le ferie di Raimi (la gag delle pastiglie suona fin troppo autobiografica...).

ARTICOLI CORRELATI:

- LA CASA di SAM RAIMI

(06/05/07)

HOME PAGE