STOKER di Park Chan-wook

REGIA: Park Chan-wook
SCENEGGIATURA: Wentworth Miller, Erin Cressida Wilson
CAST: Mia Wasikowska, Matthew Goode, Nicole Kidman, Dermot Mulroney, Jacki Weaver
NAZIONALI: UK, USA
ANNO: 2013

LA MORTE TI FA VENIRE, OVVERO ITCHY HITCH(COCK)

La prima volta non si scorda mai. Se poi l’orgasmo della prima volta ce l’hai sotto la doccia e  mentre ti masturbi pensando a come poco prima quella possibile prima volta si sia conclusa davanti ai tuoi occhi con il collo del tentante stupro spezzato, si capisce che il terreno – quello della tua età adulta, ragazzina dai capelli scuri e gli occhi tristi – è fertile e gonfio per un futuro di minuziose perversioni.

Eros e Thanathos la fanno da padroni nel debutto americano di Park Chan-wook, all’ombra ingombrante e al contempo rassicurante dello Zio Hitchcock. Se infatti il soggetto di Wentworth Miller prende vagamente le mosse dal dualismo tra lo Zio Charlie e la sua amata nipotina da L’Ombra del Dubbio, è la mano di Park a intessere in Stoker una ragnatela di finissime citazioni hitchcockiane, in una spirale vertiginosa di lampadari oscillanti, cadaveri in cantina, scale, binari di ferrovia, tende da doccia, uccelli impagliati. E quel labile, ambiguo filo che lega morte e sesso, uroburo ancestrale della cui tensione vive il cinema del compianto Maestro del Brivido.

Stoker parte da dove si era interrotto il discorso sessuale e vampirico/vampirizzante di Thirst, crea un microcosmo fuori dal tempo nel midwest americano e borghese e ci installa una storia di adolescenza smarrita tra scarpe da uomo e tacchi alti, cinture troppo larghe e vini troppo giovani: la storia dell’adolescenza di India Stoker, diciottenne come tante e come nessuna, un padre da poco morto in un incidente, una madre algida e delusa e uno zio, lo Zio Charlie, che per lei nutre un interesse curioso e morboso, forse. Se la storia non offre mistero, e se il colpo di scena è continuamente anticipato e annullato nella non sorpresa beffarda quasi da anti-thriller, è l’atmosfera, sono le geometrie degli sguardi tra i protagonisti, le asimmetrie del dialogo sempre (quello sì) un passo avanti allo spettatore, a fare il fascino e il mistero del film. Film che è un thriller orrorificamente liminale, stanco, citazionista, ma soprattutto profondamente malato, di sdoppiamenti e biforcazioni allucinatorie, di suggestioni e negazioni facili, di magistrale direzione come se ne vedono raramente ormai. È il Park migliore quello all’opera qui, quello che non smarmella mai, che non lascia cadere nemmeno un’inquadratura nel vuoto dello scontato, del normale: è il Park di Lady Vendetta, quello forse gelato, ma spaventoso nella sua capacità chirurgica di incisione nella pelle della storia con la sua macchina da presa. Brandelli di storie si affastellano, si succedono, nel passato (i flashback qui, sulla giovinezza dello Zio Charlie, hanno la potenza di quelli di Old Boy, nientemeno) nel presente e nel meta-presente, mostrando la discendenza attraverso il sangue, il gene malato della fame di morte, dell’istinto a distruggere.

Il carillon rotto non si aggiusta, la Madre lo sa e prova solo a dimenticare. Park orchestra tutto sul filo del rasoio, e a volte sembra un mago. Forse s’è anche tagliato, chissà, ma a guardare Stoker non si direbbe.

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