SUMMERTIME SADNESS: IL COLTELLO NELL’ACQUA di Roman Polanski
REGIA: Roman Polanski
SCENEGGIATURA: Roman Polanski, Jerzy Skolimowski, Jakub Goldberg
CAST: Leon Niemczyk, Jolanta Umecka, Zygmunt Malanowicz
ANNO: 1962
UNA STORIA SCRITTA SULL’ACQUA
Il cinema di Roman Polanski comincia con l’acqua, con la natura conturbante e fosca dei laghi della Masuria, nel nord della Polonia, che fa da location a questo suo primo lungometraggio, ammantata di quello stesso senso lugubre della foresta di Birnam del Macbeth. L’acqua, con tutto il suo portato panico e romantico, è l’elemento materico che tornerà in tutto il cinema del regista. Già fondamentale nel precedente cortometraggio Due uomini e un armadio, tornerà nei canali di Amsterdam in La collana di diamanti, nel paesaggio plumbeo dell’isola di Cul-de-sac, nel Mont Saint-Michel invaso dalle maree di Tess, nella spiaggia desolata delle streghe di Macbeth, nell’isola brumosa di L’uomo nell’ombra. Oppure condensata in neve in Per favore… non mordermi sul collo. Altri due film saranno completamente, o quali, ambientati su un’imbarcazione, Pirati e Luna di fiele. E finanche nel noir Chinatown il motore della vicenda riguarda l’approvvigionamento delle risorse idriche.
Ne Il coltello nell’acqua, l’elemento acquatico è presente in tutto il film, con l’unica eccezione dell’inizio, l’arrivo in macchina (stesso incipit di Frantic). Anche nella parte finale, dopo il ritorno sulla terraferma, con quasi tutto il film ambientato nella barca a vela, l’acqua torna nella pioggia, nei vetri bagnati e nelle strade inumidite. L’acqua, la superficie del lago con i suoi riverberi, della barche ormeggiate, del cielo, dei canneti, della vegetazione palustre, luccicante alla luce del sole, scura al crepuscolo, il legno bagnato dei moli. Lo sciabordio delle onde, il gracidare delle rane, il suono ambientale che si mescola alle musiche jazz del compositore prediletto dal regista, Krzysztof Komeda. Un ambiente tanto suggestivo quanto tetro, gravido di presagi negativi, il corrispettivo delle spettrali traversate sul lago Biwa, di mizoguchiana memoria. Eppure il film rimane in uno stato di calma piatta, come la superficie del lago. Solo dopo un’ora, le acque del film cominciano a incresparsi, con la lite per il coltello. Polanski sa giocare di tensione e di suspense, eludendo i meccanismi spettatoriali che vorrebbero un’improvvisa tempesta, la deflagrazione drammatica di Ore 10: calma piatta, o di The Deep. Come il gioco dello shangai, praticato dai personaggi nel film, su cui indugia Polanski, e che viene definito come un organismo, dove tutti i bastoncini devono rimanere immobili al dipanarsi del gioco, ma basta un minimo spostamento involontario e il gioco è finito. Come il racconto del protagonista, sull’uomo che saltò sui cocci di bottiglia, dove il finale con il suo esito drammatico viene continuamente rinviato durante il film. Così Polanski gioca a rimpiattino con il suo pubblico.
La barca a vela serve all’autore anche per creare uno di quei microcosmi ristretti, claustrofobici, dove domina una dimensione sessista, dove aleggia quella misoginia tipica del regista. Sulla nave, che pure porta il nome della donna, il timone non può che rimanere in mano a uno dei due uomini, non si può neanche sfiorare l’idea che la donna possa essere al comando, «Non è un lavoro per le signore» viene detto. E nel dialogo in cui la coppia e lo straniero fanno conoscenza, pare di capire che l’istruzione e la laurea siano appannaggio degli uomini, ma, anticipando la risposta del suo interlocutore, uno dei personaggi ipotizza che l’altro possa essere laureato in ginecologia. E la donna, a differenza degli altri due protagonisti, interpretata non da un’attrice professionista ma scelta da Polanski per le sue peculiarità fisiche (nella sua autobiografia la ricorda come particolarmente stupida), subisce una vera e propria metamorfosi nel film. Insignificante finché vestita, sprigiona una conturbante carica erotica quando si mette in costume da bagno, quando si spalma la crema abbronzante, quando è distesa a prendere il sole. E Polanski la mostrerà anche in un fugace nudo totale, mentre si cambia. Sviluppa così una graduale e crescente tensione sessuale tra lei e lo straniero, che porterà al bacio a al climax narrativo finale.
Centrale, come lo sarà nei film a venire, la poetica degli oggetti, l’indugiare del regista su di essi, il dare loro la valenza di tessere apparenti di un mosaico, a partire dal coltello che dà il titolo al film. Un oggetto che tornerà ancora nella filmografia di Polanski, impugnato da Rosemary, arma impari contro i membri della setta satanica, nascosto sotto la sabbia dalle streghe del Macbeth… E qui il coltello si rivela come un “mcguffin” hitchcockiano, un puro pretesto narrativo, foriero di attese spettatoriali che verranno eluse, destinato ad affondare nella sua vana pretesa di fendere l’acqua.