SUMMERTIME SADNESS: QUANDO LA MOGLIE È IN VACANZA di Billy Wilder
REGIA: Billy Wilder
SCENEGGIATURA: George Axelrod, Billy Wilder
CAST: Marilyn Monroe, Tom Ewell, Evelyn Keyes, Sonny Tufts, Robert Strauss
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 1955
TITOLO ORIGINALE: The Seven Year Itch
CHAMPAGNE E PATATINE FRITTE
Capita che, in piena estate, moglie e figlio vadano in vacanza mentre tu rimani a casa da solo, con del lavoro da portare a avanti. Uno scapolo estivo. E chi ti trovi come nuova vicina di casa? Nientemeno che Marilyn Monroe! Cosa si può voler di più dalla vita, considerando anche che con la consorte stai attraversando la crisi del settimo anno e la nuova amica si dimostra particolarmente affettuosa, svampita e disponibile. Succede in The Seven Year Itch, il titolo originale di Quando la moglie è in vacanza, primo dei due film di Billy Wilder con la Monroe, tratto da una pièce teatrale di successo, da cui viene recuperato l’attore protagonista, Tom Ewell nel ruolo di Richard Sherman, e l’autore, il commediografo George Axelrod, come sceneggiatore.
Il film è, in tutto e per tutto, la sublimazione dei sogni dell’americano medio dell’epoca, ma facilmente estensibile agli uomini di tutti i tempi. Protagonista è un tipico esponente della middle class americana, colto, mezza età, che vive nelle tipiche casette a schiera della downtown newyorkese.
Wilder è abilissimo a tenere tutto sul filo sottile tra realismo e onirismo. In un film continuamente intervallato dalle materializzazioni dei sogni del protagonista, le proiezioni dei suoi pensieri, i suoi timori e desideri che si concretizzano in brevi sketch, flashback di fantasia, dialoghi immaginari, non può non mantenersi l’ambiguità sul fatto che la storia stessa del film, l’incontro casuale con una donna bellissima, sia anch’essa un sogno. E la battuta sul cominciare a fantasticare in cinemascope suggerisce un’identificazione tra l’inconscio dell’uomo e il cinema, in un film dove giocano un ruolo importante le citazioni cinematografiche, come vedremo più avanti. La prorompente ragazza, senza nome, che ci si trova improvvisamente in casa, pare tutt’altro che inaccessibile. Quando scopre che Richard non è scapolo, come ha cercato di farle credere, non solo non è contrariata ma magnifica i vantaggi dello stare con uno sposato. Quando lui le salta addosso per baciarla, colto da un raptus, e su imitazione di un suo precedente sogno, e poi si scusa, lei, autentica creatura eterea, non si scompone trovandola una cosa naturalissima. Lui le dice «Non mi era mai successo niente di simile» e lei risponde «A me succede continuamente». Quando si reputa inadeguato pensando che le donne ambiscano ai Gregory Peck, lei gli dice «Che ne sa lei di chi vogliono le belle ragazze?». Arriverà anche a implorarlo di poter passare la notte da lui, e quando arriva in casa un estraneo e la vede, esclama incredulo «Devo crederci senza toccarla?». Lo stato onirico è suggerito ancora da alcune battute. Lei lo rassicura che la moglie ritornata per sparargli è solo il frutto della sua immaginazione, rimarcando ancora il continuo oscillare del film tra realtà, o presunta tale, e sogno. Lui si capacità del fatto che lei è in quel momento nel suo appartamento, mentre solo due giorni prima erano estranei, appellandosi alla psicanalisi e al subcosciente. E il libro su cui sta lavorando si intitola “L’uomo e l’inconscio”. È lo stesso Wilder quindi a suggerire ironicamente una lettura psicanalitica del film, che si diverte a costellare di facili simbologie. Da quelle falliche, le verdure del ristorante vegetariano, il suo tic nervoso con il dito e soprattutto la pagaia che torna spesso e troneggia quando lei si fa allacciare le bretelline da lui. A quelli eiaculatori, come lo stappare lo champagne o spruzzare il seltz. Allo scalzapelli caduto nella fessura. Alla pianta di patate, che nella versione originale era in realtà di pomodori ma in inglese “tomato” è anche un modo di dire “bella ragazza” (ogni tanto i traduttori italiani ci azzeccano).
Tutto il film è ammantato di un soffuso, lubrico erotismo, reso con quella stessa maestria che Wilder sfoggerà nell’altro film con la bomba del sesso Monroe, A qualcuno piace caldo. Un contesto estivo di caldo, una situazione bollente, il clima adatto alla liberazione dei sensi e dei piaceri della carne. Tutto si gioca – in pieno Codice Hays – su un sottile filo voluttuoso. La ragazza dice che tiene in frigorifero i propri indumenti intimi. Parla della sua attività di modella per foto artistiche (proprio come la vera Marilyn) e per spot pubblicitari di un dentifricio che rende pronte per il bacio. Fino ad arrivare all’ascolto della musica di Rachmaninov, diegetica ed extradiegetica, talmente intensa da assurgere al ruolo di una scopata. E poi c’è la scena, diventata celeberrima, della gonna di lei che si alza per l’aria che sbuffa dalla grata, cui segue un bacio: più arrapante di mille spogliarelli di Kim Basinger, di mille accavallamenti di gambe di Sharon Stone, di mille blowjob di Sasha Grey. Wilder lavora proprio come il suo personaggio che deve “erotizzare” (nella traduzione italiana) i libri su cui lavora.
Wilder guarda all’America, la sua patria adottiva, con gli occhi dell’intellettuale colto europeo. Dissemina il film di riferimenti “alti”, Piccole donne, Il ritratto di Dorian Gray, Rachmaninov, Sarah Bernhardt, Gershwin, ma il suo protagonista deve intervenire sulla cultura per venderla, cambiando i titoli, creando manifesti pubblicitari fuorvianti. Un paese che si erge sulle macerie della civiltà nativa degli Indiani d’America, richiamati nell’incipit, un paese dove si possono abbinare champagne e patatine fritte, Rachmaninov e Le tagliatelle (Chopsticks), rompendo gli steccati tra la cultura popolare e quella aristocratica. Un paese che esercita un fascino perverso e irrazionale, incarnato dalla sensualità di Marilyn, simbolo dell’”American Beauty”, nella sua libertà e nella sua sottocultura («Questa è musica classica, vero? L’ho capito, perché non cantano.»). Marilyn, il sex symbol per eccellenza, che pure nella vita si sarebbe sposata con l’intellettuale Henry Miller. La stessa attrazione che Nabokov faceva incarnare nella figura di Lolita. Diversa invece dal punto di vista interno che avrebbe avuto Woody Allen, il cui cinema è pure estremamente debitore di questo film, quello dell’intellettuale newyorkese con un atteggiamento di altezzosa superiorità.
E il film è ricco anche di citazioni cinematografiche, a partire dai momenti onirici del protagonista, che rispecchiano l’immaginario della settima arte. Evidente in ciò la cifra stilistica dell’autore dello script, George Axelrod, che avrebbe poi sceneggiato Paris – When It Sizzles (Insieme a Parigi), storia di uno sceneggiatore all’opera su una sceneggiatura che prende vita durante la sua stesura. Una prima citazione è la parodia della scena della spiaggia di Da qui all’eternità. Si fa più volte riferimento poi a Il mostro della laguna nera di Jack Arnold, film sul tema della bella e della bestia, che serve a evidenziare la sensibilità di Marilyn, che parteggia per la creatura squamosa. E poi nell’ufficio di Sherman campeggia un poster di Ultimatum alla Terra e in una battuta si cita Rivolta al blocco 11. E quindi sono evocati grandi attori, come Gregory Peck e la stessa Marilyn Monroe. Quest’ultima citazione, della stessa protagonista del film, celeberrima, già entrata nel mito, è un gioco con il pubblico, uno strizzargli l’occhio, la sospensione della convenzione cinematografica (proprio come la battuta finale di A qualcuno piace caldo «Beh, nessuno è perfetto» che porta avanti una gag per assurdo, che non potrebbe essere pronunciata se non nella consapevolezza che il film è ormai finito). Ma anche il riconoscere e sancire di essere fatti della stessa sostanza dei sogni.