SUPERMAN RETURNS di Bryan Singer
REGIA: Bryan Singer
SCENEGGIATURA: Michael Dougherty, Dan Harris
CAST: Brandon Routh, Kate Bosworth, Kevin Spacey, Frank Langella
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2006
(PERCHE’) IL MONDO NON HA PIU’ BISOGNO DI SUPERMAN (?)
«Anche se sei stato cresciuto come un essere umano non sei uno di loro. Sono un grande popolo, Kal-El. Vorrebbero esserlo. Ma non hanno la luce che illumini loro la strada. Per questo e soprattutto, la loro disposizione al bene, che ho mandato te… il mio unico figlio».
Se in una celebre scena di Spider Man 2 il corpo ferito del giustiziere in calzamaglia veniva sollevato dalle braccia di una città commossa, come si addiceva un tempo per i cavalieri caduti in battaglia, in Superman Returns l’interesse si sposta verso lo strettissimo legame che accomuna eppure divide da sempre gli uomini dagli dèi. Non è un caso che a un certo punto venga citato Prometeo, la divinità che portò all’uomo il fuoco, simbolo della conoscenza. L’obiettivo di Singer è ridefinire l’originale parabola sulla diversità, quale monito sociale per accettare ed essere accettati; con X-Men questa intenzione appariva evidente, tanto da mostrare una guerra fra uomini e mutanti. Questa volta i primi, dopo aver dimenticato il loro paladino prigioniero in chissà quale anfratto spaziale, relegato a elaborare un personalissimo lutto in un pianeta di cumuli e macerie, saranno costretti quasi a invocarlo per evitare la distruzione della vita; allo stesso modo l’uomo d’acciaio dovrà toccare mani umane per risorgere dalle ceneri di una fine sicura.
Terrestri e non dunque, legati da un vincolo quasi indissolubile: aspetto accentuato dalla condizione di un personaggio soggetto a grandi oneri, tanto da elevarsi appunto su tutti e tutto come un essere divino, per comprendere e curare i dolori dell’umanità. Scrive Sergio Brancato: «nelle espressioni contemporanee del superomismo sono riposte quelle pratiche simboliche che la cultura laica e postilluminista ha rimosso ai margini di ogni discorso». Una genesi travagliata per il giovane alieno allevato nelle fattorie del Kansas e nato dalla mente della coppia Siegel/Shuster prima come criminale ispirato al protagonista di un romanzo e poi passato dall’altro lato della barricata. Chi poteva pensare che dal genio di Alan Moore ne L’uomo che aveva tutto questi sarebbe diventato quasi refrattario alla vita sulla Terra tanto da desiderare fortemente di tornare su Krypton; Superman Returns è anche e soprattutto un lungometraggio che tenta di rinnovare l’incontro ancestrale fra padri e figli: Jol-El camuffato da un ologramma fugace si rinnova nel testamento diretto al figlio di Kal-El ancora inconsapevole dei propri poteri (come per il piccolo Jack Jack de Gli incredibili). Un’opera quale atto d’amore dedicato al modello Donner: non solo per le citazioni sparse, ma anche per i titoli di testa e il tema musicale nel quale convergono le melodie del bravo John Ottman e l’intramontabile partitura firmata da John Williams. I primi due capitoli della saga vedevano Metroplis resistere agli attacchi di una banda di extraterrestri malvagi; ora quella minaccia mette in scena un nuovo e diabolico Lex Luthor. Il gigione degli anni Ottanta reso formidabile dalle tinte grottesche di un Gene Hackman spassoso si rigenera nella performance trasformista (fioccano parrucche come maschere) di Kevin Spacey accompagnato da Parker Posey, ottima pupa del capo.
La sceneggiatura racconta il ritorno di Luthor dopo cinque anni per impossessarsi prima dell’America e poi del mondo sfruttando forme di tecnologia superiore; come se non bastasse la bella Lois Lane (Kate Bosworth), dimenticando la (Super) love story è sposata con un figlio e ha vinto il premio Pulitzer per il saggio “Perché il mondo non ha bisogno di Superman”. La nota dolente purtroppo arriva dallo sconosciuto protagonista Brandon Routh, tanto impressionante e fedele all’immagine del compianto Cristopher Reeve quanto inespressivo e poco adatto a coprire un ruolo forse impossibile. Un’operazione importante, meglio la più importante; considerato il folle budget per realizzare una pellicola dove si mescolano spettacolari effetti speciali, etiche new age e frammenti di cultura pop unite a scenografie anni ’40 con linee art deco per più di due ore di proiezione. È probabile che questo film non piaccia a tutti, ma si deve ancora una volta dare merito a Singer se un genere così seguito non è più consigliabile a un pubblico di soli ragazzi.
Recensione precedentemente pubblicata su frameonline.it