SUPERMAN RETURNS
REGIA: Bryan Singer
CAST: Brandon Routh, Kevin Spacey, Kate Bosworth
SCENEGGIATURA: Dan Harris, Michael Dougherty, Brian Singer
ANNO: 2006
A cura di Alessandro Tavola
SUPERMAN RETURNS
Con un progetto di questo
genere, già sulla carta, è totalmente vivo il (ri)sentimento verso la sua
assoluta inutilità basilare, visto che indubbiamente andare a recuperare il
supereroe per antonomasia oggigiorno è direttamente un riconfermare unificato
di tutte le correnti (schifosamente) in voga ora a Hollywood: ennesimo
cinecomic, ennesimo rispolvero-remake, ennesimo rinnegare-rinnovare di stili
visivi, ennesimo refresh dell’immaginario post 11/9, ennesimo tentativo
di fare soldoni da rigattieri. Tuttavia, come sempre, rimane interessante
vedere come un regista possa riuscire a confrontarsi col più saldo dei
firmamenti pop, se attraverso semplici rivisitazioni, reinvenzioni,
approfondimenti vari o nell’azzerbinamento più totale. Fortunatamente
quest’ultima ipotesi è da scartare: il film di Bryan Singer osa nelle intenzioni ed è ricco di una forte
personalizzazione morale e visiva che però non riescono a trovare totale sbocco
nella resa finale, affievolita da numerose pecche, dovute a incertezze formali
e agli handicap propri della natura stessa di ciò che si vuole andare a mettere
in scena.
Così come già Ang Lee con Hulk e Christopher Nolan con Batman
begins avevano puntato tutto sull’introspezione, sul come e il perché
di scelte e conflitti interiori dei propri protagonisti, Singer tende a
minimizzare la componente “super” per incentrarsi sull’uomo,
sulle sue paure e i suoi doveri, l’indecisione quasi costante, la netta
sensazione che le cose non siano completamente a posto, come invece morale
comune vorrebbe, descrivendo un carattere disorientato e intriso di timori,
(ex)eroe quasi decaduto in un limbo di assoluto oblio, dove non riesce ad
essere indipendente e fiero come dovrebbe, persa la donna, perso il proprio
popolo, persa la speranza.
È un ennesimo manifesto dell’insicurezza occidentale odierna, fatta di
ventenni che non riescono a guardare avanti con reale speranza e di una visione
collettiva che vede il collasso dietro l’angolo, sociale, economico, geologico,
morale. Ottica sul presente riversata sul personaggio=forza che, forse ormai
banale, strumentalizzata e stereotipata, rimane comunque torbidamente reale,
inequivocabile, che pulsa e si eleva da banale sottotesto a vero proprio climax
ideologico del film,che da filoamericano si fa strettamente personale, nonché
suo (unico) punto di forza: se i due registi sopra citati si perdevano uno in
banalizzazioni filofreudiane e l’altro in frasi fatte ripetitive e quasi
ridicole, Singer scava e raffina di particolari, da la giusta valorizzazione
alle piccolezze gestuali e verbali, dosa quasi perfettamente i silenzi e le
situazioni in cui il suo eroe si ritrova, più emotivamente intense ed estreme
di quanto ci si possa aspettare, dandogli lo sguardo perso di Brandon Routh, occhio chiuso e
spalancato di funerea ma assuefatta angoscia, propria di chi sente se stesso
come rarefatto nell’universo di (cattivi) pensieri, solitario angelo
perduto in una metropoli(s) verso la quale agisce con facilità ma distacco, che
fanno di quel Superman vs Lex Luthor uno scontro interiore più che un tipico
duello tra nemesi, un guardarsi allo specchio per poi perdere nel confronto
contro se stessi, consapevoli della propria minutezza-impotenza di fronte a
umori/avvenimenti/situazioni che si fanno immense e indomabili qui di splendido
blu, negli iridi, nel cielo, nel mare che domina il campo visivo in molteplici
occasioni, in emozioni meta-visive.
Grafia colossale per pensieri intimisti, un quasi immacolato combaciare
d’estetica e morale, abbracciarsi plastico di colori e umori, in uno dei
personaggi dall’animo più intenso tra quelli proposti in questi anni dai
colossi statunitensi e tra i molti descritti dal regista newyorkese.
Ma a discapito di quest’ottimo compiersi, c’è una totale mancanza
d’equilibrio e personalità di tutte le altre componenti del film: lo
descriversi emozionale è purtroppo nel tempo parte troppo poco consistente
rispetto alle due ore e mezza totali, la cui rimanenza è una ribollita di
banalità e situazioni già viste, verso le quali Singer non riesce o non vuole
operare con mano psicovisiva, perdendosi nello standard più infimo, sopraffatto
dagli arcaismi formali: d’epoca e ormai ammuffito il voler conquistare il
mondo da parte del Lex Luthor, villain d’essenza ma mai evoluto o
sfumato, forte solamente del carisma e del gigioneggiare tipico di Kevin Spacey, come sempre godibile
oltremodo, contrariamente alla Lois Lane di Kate
Bosworth, inamabile e ancor più acida di quanto fosse Margot Kidder, odiosa
e soprattutto scialba, così come la rimanenza dei personaggi (Clark Kent
compreso) e la maggior parte dei dialoghi che trascinano un plot troppo troppo
troppo tipico e assolutamente privo di novità e punti personali, se non quelli
su Superman stesso.
Seppur in un perfetto mescolarsi scenografico di retrò (costumi, automobili) e
moderno (telefonini, aerei, luoghi), le scene d’azione anche loro sono
prossime all’inesistenza per impatto visivo, in un sostanziale ritornare
di fratture/esplosioni/imponenze ormai somatizzate dagli occhi di tutto il
mondo, digitale aggiunto al digitale per normali effetti speciali, afflitti da
una tecnica anonima e piatta – nel montaggio, nel sonoro, nell’mdp
- e dalla quasi certezza che ogni mossa del super uomo (che ricordiamo, vola, è
invulnerabile e dalla forza infinita, tranne che in presenza della solita cazzo
di kryptonite) andrà a buon fine, lasciando il gioco registico a stupidi e
infantili bullet time sottolineanti la sua velocità, la sua indistruttibilità.
È probabilmente questo lo scoglio maggiore nel mettere in scena un film su
Superman oggi che tutto è visualizzabile: la classicità ormai sterile, la
totale mancanza di malleabilità narrativa ed estetica, una spettacolarità che
oggi un uomo che vola non riesce più a dare, se non nella (s)naturalizzazione
del personaggio stesso quale Alieno o nel riecheggiare del vecchio theme di John Williams, legato al ricordo della
pellicola di Donner.
Legacci di polvere qualsiasi dunque tra scene di estrema bellezza, mezzo
capolavoro e mezza porcata, anime filmiche nettamente distinte tra loro,
chiedendosi se 270 milioni per un film in cui i momenti migliori sono fatti di
sguardi, gesti e piccole parole vadano considerate un fallimento o
semplicemente la riconferma che l’umano vince sull’artificiale.
(27/09/06)