SWEENEY TODD

REGIA: Tim Burton
SCENEGGIATURA: John Logan
CAST: Johnny Depp, Helena Bonham Carter, Alan Rickman
ANNO: 2007


A cura di Pierre Hombrebueno

LA MUSICA NON PUO’ ESSERE MUTA

Mi chiedo che cosa abbiano visto i critici che hanno definito questo film “una danza macabra”, probabilmente giusto per darsi un tono figo credendo di aver coniato chissà cosa. Beh, Sweeney Todd non è una danza macabra per il semplice motivo che in esso non c’è nessuna danza. Non ci sono nemmeno coreografie di nessun genere, in quanto Burton si discosta totalmente dalla rappresentazione classica del Musical, perchè ciò che intende portare su grande schermo è un film intimistico, intestinale nel suo concentrarsi sui volti, e tragicamente epico nei sentimenti carnali che tratta, quella fottuta vendetta che ancora una volta torna al centro della narrazione, nascita ma soprattutto fine di qualcosa, possibilmente in una pozza di sangue, con quel rossore palesemente finto e retrò, artefatto.
La macchina da presa è perennemente puntata sulle facce diventate macchiette oscure, rappresentazioni iconografiche un po’ dark un po’ cartoon un po’ emo, la cui pelle è tessuto (in)produttivo di tutto questo circo, complice la fotografia di Dariusz Wolski, lo stesso che diede la cromatica horror ai Pirati dei caraibi, e che qui ha il primo compito di risaltare le ombre sulla figura pallida del protagonista.
Depp, matita nera sbavata e capelli anni 80’, recita con gli occhi, sa di avere costantemente la macchina da presa focalizzata addosso e quindi sfoggia ininterrottamente l’esagerazione espressionistica che fece grande l’epoca del Muto, con meticolosa attenzione ad ogni micro-movimento del proprio viso. Essendo che la maggior fetta del film ha il suo punto focale proprio sulla maschera Depp, allora possiamo affermare che Sweeney Todd è un’opera che parte, nasce e muore proprio in nome del Cinema muto, quell’estetica che da sempre Burton va inseguendo e che qui viene portata all’esasperazione più estrema: la costante della regia sta unicamente nel passare dai primi piani ad un qualsiasi dettaglio (le mani con il rasoio, il collo, gli occhi), riducendo al minimo l’uso di campi. Egli pare aver paura di allontanarsi troppo dai visi che riprende, e facendo così trascura le potenzialità non solo del corpo in quanto mezzo d’azione e movimento (dunque: ritmo e dinamismo), ma spreca anche e soprattutto lo spazio scenico a disposizione. Risultato: La creazione visionaria che fece di Burton un regista calibro Auteur viene repressa ancor prima di nascere; di Burtoniano, ma realmente Burtoniano (e non le pippe cinefile del riconoscimento forzato di qualsivoglia tematica che ritorna), qui ci sono solo i titoli di testa, un po’ pochetto per un autore che si vuole ormai maestro di coerenza ed ossessività visive. E’ vero che qui abbiamo nuovamente l’alienato personaggio con tanto di protesi (Edward mani di forbice è diventato Sweeney mani di rasoio), ma a mancare, stavolta, è l’empatia col personaggio che viene mostrato, come se l’enfatica magia fiabesca tipica di Burton si sia ormai spenta per un manierismo freddo e anestetizzato. Questo film, invece di pulsare carne e sangue, puzza invece di plastica, in quanto l’approccio registico è quantomai rivolto alla superficie, alla costruzione visiva eccezionale solo per i primi minuti, e poi affogata nella ripetitività in cui la tragedia si consuma con una nota di troppo, un cantato che seppur non stoni, è però privo di lacrima e reale dolore. E mai e poi mai avrei creduto di poter parlare di piattezza registica in riferimento a Burton, ma qui il dramma si palesa ma è intoccabile, prosciugata di poesia e di pathos, come se fosse protetta da un vetro che tiene sempre gli spettatori ad una distanza di sicurezza.
La verità è che la scelta messa-in-scenica di Burton si ritorce troppo presto contro l’opera, in quanto Sweeney Todd è un meltin’ pot utopistico ed irrealizzabile, il tentativo di girare un film che sia un Muto ma contemporaneamente un Musical; le rispettive esigenze di genere però, si ritorcono una contro l’altra finendo per auto-annullarsi: i primi piani del Muto privano al Musical la sua natura dinamica, mentre il cantato del Musical non è dialogismo emotivamente idoneo per i primi piani del Muto. Allora, l’intreccio si scioglie nella monotonia di un lavoro che più che mai appare commissionato ed incapace di giocare con le immagini, l’inventiva visiva e registica.
Si immortala nella nostra memoria cinefilica solo il meraviglioso frame finale, evocativo e persino lirico. Ma Non basta.

 

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(29/02/08)

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