SYNDROMES & A CENTURY
REGIA: Apichatpong Weerasethakul
CAST: Nantarat Sawaddikul, Jaruchai Iamaram, Sophon Pukanok
SCENEGGIATURA: Apichatpong Weerasethakul
ANNO: 2006
A cura di Davide Ticchi
VENEZIA 06’: DISTRUTTORE DI
COSE TERRIBILI
Al tatuaggio del signor Toa: DTT, una sigla, possiamo
attribuire il significato che vogliamo, perché sappiamo che non esistono
barriere semantiche e grammaticali, soltanto il segno impresso su di un corpo,
marchiato indelebilmente.
Il signor Toa è timido, medico insicuro della sua
professione, svogliato e apatico, sconvolto dal sentimento d’amore che lo
devasta, amore che non fa mangiare né dormire. Primo piano di un viso
cagionevole e mesto: “la figura geometrica che
preferisco è quella del cerchio, di materiale vetroso”, risponde alla
domanda della dottoressa Tei, donna di cui è
innamorato fino all’ossessione. Glielo confessa, con la testa fra le
braccia, stanco, distrutto, inerme e tragicamente vulnerabile. “Ti amo e
non so che fare”. Lei gli racconta di un uomo di cui forse
s’innamorò una volta. Coltivatore di orchidee,
fiori magici e costosissimi, fluorescenti. La storia resta in sospeso. Parole
pronunciate nella lieve brezza di una giornata in campagna, luogo di alberi all’ascolto. Insofferenza e impotenza. La
zia dell’esperto di orchidee arranca nel prato
che una volta era coperto dalle acque di un lago. Ha la gamba destra più corta
della sinistra, se l’è rotta e adesso zoppica nell’affranto. Si
vive di ricordi e misture indefinibili legate al presente,
sentimenti che portano ad amare una notte, e non sapere più chi il
giorno dopo. Non c’è più spazio per l’amore eterno, non esiste
l’idealità femminile, ma un amore sconfortato e vittimizzante, atto alla
perdita di ogni dignità. Se
nella vita precedente ero un uomo, e in questa sono uomo, lo sarò anche nella
prossima. Questa è la mia unica certezza. Per il resto si vive di farmaci,
corridoi bianchi e trasparenti di ospedali, aspettando
il giorno in cui si nascerà uomini da qualche altra parte, in qualche nuovo
mondo che non comprenda in sé natura e urbanità. Perché il quarto film di Apichatpong Weerasethakul
non offre null’altro a livello scenico, alberi o palazzi, fotografie di
qualche lontano lido petrolifero, dove l’esistenza pare ancor più inutile
e alienante. Il resto è sogno dell’indefinibile, vuoto risucchiare di un
tubo dell’aspirazione di fumi umani, inquadrato
per qualche lungo ipnotizzante minuto. Plastica ferrosa, creata asetticamente
da colui che non è strinto dalla mdp
del regista tailandese. Occhio che preferisce guardare, piuttosto che
comprendere gli schemi dall’alto e dal basso di una realtà subordinata, a
cui non facciamo neanche più caso tanto ci siamo dentro. Raggiungere
i sotterranei di un ospedale per ascoltare i rumori dei motori che
distribuiscono energia all’intero complesso. E’ finita
l’era della superficie terrestre, l’uomo si riabilita nel
sottosuolo, pratica una fisioterapia mistica e sportiva con protesi sintetiche
che nascondono al loro interno bottiglie di alcool, da
bere nella monotonia assoluta.
Triste routine ci mostra Syndromes and a Century,
defraudata dei suoi momenti di redenzione, che non sussistono più, né tra gli
alberi, né fra le mura assiali di un ospedale del pieno centro urbanizzato. Se nel primo versante narrativo di questo film la visione
naturalistica e indiscutibilmente più ottimistica della sua speculare metà,
prevedeva l’ostentazione di una donna che procede zoppicando con le
proprie gambe, nel secondo assistiamo alla sostituzione della carne e delle
ossa con un surrogato dell’era diagnostica moderna, una protesi smontata
da un quadro metafisico dechirichiano. Il futuro
sparso qui e là nel presente, attraverso foto che preludono progetti che mai verranno messi in atto. Nuova faccia del Giano bifronte, la
realtà esteticamente e sentimentalmente asettica dell’altro presente
ospedaliero ci costringe a guardare gli interni dell’edificio ed i
diversi modus operandi dei medici sfibrati dalla
mancanza di contatto umano. Lo sguardo sulla finestra del presente non ci
comanda più il trapianto corporeo nella foresta, ma in una giungla
d’asfalto dove svettano palazzi come tronchi e antenne come rami svuotati
dalle foglie. La fine è vicina, l’accettazione e l’adattabilità
umana risaltano su tutto. Sulla veranda di un vecchio complesso o dentro la
stanza di una costruzione postmoderna il rapporto fra un uomo e una donna, necessariamente
diverso, prevede ugualmente la possibilità di
un’erezione, in seguito ad un bacio spassionato che sembra voler dire
penetrazione istantanea. Weerasethakul
frappone plastiche, teli igienici verdi, e li dà per
acquisiti, ma costringe lo spettatore ad entrare in contatto con essi
attraverso il cinema, controvoglia e contro ogni intellettualismo. Il suo film
è un omaggio ai suoi genitori, ai suoi lunghi dieci anni passati fra le corsie
dell’ospedale dove lavoravano e morivano. Richiamando
così in vita quei fantasmi sconosciuti che scompaiono ad un tratto, nel totale
mutismo di un letto bianco o nel fragore di una turbina che aspira fumo e
rigetta quel bianco candido che ci sottrae alla realtà multiforme e multicolore
che abitiamo. Ma un compromesso è in arrivo, religione e scienza
destinate a fondersi e giocare tra di loro in un parco
alberato immerso nell’urbanitas. Un monaco fa
volare uno strano oggetto roteante, frutto di una qualche stravaganza tecno-ludica, un nutrito gruppo di persone balla al ritmo
di una musica postmoderna, ma tutto è avverso a questo termine, semplicemente
questo tutto composito che fa di Syndromes and a Century un vero capolavoro, lo ripudia.
L’importante è ascoltare il polso del mondo e viverlo nella sua
omogeneità attuabile, quella della natura primordiale e di quella civilizzata.
Non ci fa terrore osservare dall’alto di un grattacielo un mondo senza né
gesta né eroi, una sterminata vallata grigio fumo od una verde primaverile.
L’importante è guardare, irrefrenabilmente. Il presente
è tutto ed è mastodonticamente, inutilmente noioso.
Tanto vale distrarci e intrattenerci, con il resto del cinema e con la tv.
Syndromes and a Century
o lo si guarda fradiciamente
immersi nella sua natura soggettivamente interpretabile, o si preferisce ad
esso quello che sta intorno allo schermo, una sala buia che comunque non
nasconde e anzi ricalca la sensazione sintomatica di qualcosa di enorme e
incancellabile sulla nostra pelle. Come un tatuaggio, il film del regista di Tropical Malady si deposita
eternamente sull’epidermide, per tutte le vite successive, a mascherare
nascita, rinascita e decadenza fisica.
Nero su rosa, piano fisso su piano fisso, questo è il miglior film della
sessantatreesima Mostra del Cinema di Venezia.
(18/09/06)