TAKE THIS WALTZ di Sarah Polley

REGIA: Sarah Polley
SCENEGGIATURA:  Sarah Polley
CAST: Michelle Williams, Seth Rogen, Luke Kirby, Sarah Silverman, Jennifer Podemski
NAZIONALITÀ: Canada, Spagna, Giappone
ANNO: 2011

UN ALTRO GIRO DI GIOSTRA

Il diavolo è nei dettagli; negli interstizi dell’intesa, nelle ripercussioni dei momenti, nei contraccolpi dei sensi si annidano i primi raggi bui del crepuscolo dei sentimenti, o meglio – e ancor più – delle scomposte, fuggevoli emozioni. La giovane Margot di emozioni (quelle piccole, quotidiane, indispensabili) ne è ebbra, vorace, assuefatta senza soluzione di continuità; per lei ne va della sopravvivenza dell’amore. Ed è incalzante nel carpire giocosità giornaliere e curiosi scambi in codice col marito Lou (Seth Rogen figurino apatowiano qui nell’impaccio del dramma), uomo dabbene che l’asseconda nella sua concitazione un po’ bambina attraverso una complicità ormai e naturalmente scontornata di incanto, un’insonnolita convivenza a rischio tiepida connivenza. Lei si aggrappa alla schiena di Lui nell’assoluzione di un abbraccio, poi arriva l’Altro: e una risata forsennata, qualche incontro sparso, l’intuizione artistica della dualità dei desideri di Lei insinuano la miccia della chimica. Accolta e respinta: Margot annaspa e in un’altalena fremente di ritrosia e fascinazione cerca di riacciuffare le sensazioni (lo stato) del passato, ma il tempo verbale è scaduto e  rattrappito, ne rimangono soltanto strascichi cadenti, rivoli di un futuro appiccicato dietro le spalle.

Margot scopre suo malgrado che a sbracciarsi per recuperare i fantasmi dell’amore ci si ferisce soltanto, ritrovandosi vani superstiti a toccarsi e baciarsi dietro un vetro, mentre persino l’aria è (in)differente in ciascun emisfero: ma sono le trappole di momenti così dolci così crudeli a lacerarla e dividerla; perché mai come in questo film le due isole felici sono a poche bracciate di distanza, pulsano concomitanti, differenti eppure quasi uguali nella loro specificità, nell’apparente pace delle promesse.

Questo sentimento di bilico, di dichiarata paura della paura, del what if, dello scoprire desideri nascosti e autodistruttivi, Sarah Polley ce lo instilla in un irraggiamento continuo di tremori velati, di silenzi ristagnanti, di solitari cerchi concentrici: stavolta non c’è il gelo della neve né la solidità incorrotta degli anni né i passi che si dissolvono nelle impronte (quelle di Lontano da lei), bensì un sole opprimente, lo svanire delle conferme e un subbuglio di orme che si confondono.  E dopotutto, questo tra Margot/Lou/Daniel non è nemmeno un triangolo quanto un assolo, e l’unica a dirigerlo incespicando con a dettar legge le sue intermittenze è Margot, tra un ballo di leggerezza esagitata in cucina col marito e un gioco di attrazione (fatale forse sì forse no) con l’altro. A volte estraniata a volte fin troppo presente a se stessa, caracolla sul filo dell’astrazione amorosa, nell’oblio del battito interno: e la corrente del narrato è nitida, delicata, mai violenta pur nella sofferenza della frana; nella sua indietudine, Take this waltz prima di tutto vive della (e vige la) necessità della delicatezza, la semplicità incondizionata dello sguardo, la contemplazione delle increspature di movimento. Un tocco e un racconto che fanno il paio col successivo Stories we tell, documentario di ricerca auto/altrui-biografica, analisi autoptica e intimistica di frammenti della storia familiare della Polley, un conflitto che la riguarda direttamente, che è traccia(to) del/nel suo dna.

Chiaro, non è tutto oro: di sbalzi umorali e d’azione ne soffre anche il film, scricchiolando tra personaggi secondari dal mancato approfondimento (la sbandata Geraldine che pur nella propria dissoluzione rimprovera a Margot le sue scelte), e una scena di seduzione verbale tra il serio e il faceto avulsa di appeal. Eppure si fa perdonare tutto, nella commozione della sua imperfezione, di fronte a sequenze narrativo-descrittive mirabili, che valgono più di mille dialoghi esplicativi: come il valzer circolare, altalenante e acrobatico delle fasi dell’amore nella sua compiutezza, che passa dal sogno in silhouette fotoromanzata alla realtà con i suoi passaggi e i suoi salti delle maree, Leonard Cohen a cullare in sottofondo.
Come la secchiata d’acqua segreta (!) nella doccia: l’ambiguità dello scherzo, che si usura nello scherno o in un bisogno umano troppo umano di avere un segreto da celare, d’essere regista di spavento e curiosità.
Come quel girotondo senza capogiri su un vagone sospeso in aria, tra luci di plastica così soffici e rassicuranti, un volteggio che improvvisamente si ferma senza che lei sia preparata al brusco stop.
Come lo sfogo di Lou, testimonianza affranta di un processo senza giudice, di una condanna già stabilita.
E come, oltre/più di tutte: il viaggio sul carretto di Lui e Lei condotti dall’Altro: Margot con la luce che le piomba addosso siede fianco a fianco ad un uomo ormai allineato a lei, stabile e sicuro, ma si perde nella figura che le dà le spalle, celata e ancora da svelare nella sua totalità, e che corre in avanti, trasportandola in un nuovo mondo, in un nuovo modo di vedere le cose tutt’attorno, mentre l’amore esplode in un sussurro che si affievolisce.

Michelle Williams è baricentro e corpo desiderante proteso verso un’urgenza da sintonizzare: il suo forse è egoismo, forse è totale inconsapevolezza e voluttà di abbandono, forse è uno schianto di autodistruzione di una donna mai cresciuta, Peter Pan dei sentimenti. Eppure conta solo fare esperienza di lei, scivolarle accanto. E alla fine eccola di nuovo ai nastri di partenza, oppure no: rieccola in un circolo pompato dalla novità, da un altro giro di giostra, da una svolta, un momento di ricambio, di esternalità, di sospensione o di tutte queste cose insieme o di nessuna. O, forse, soltanto un momento.

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