TENEBRE di Dario Argento

REGIA: Dario Argento
SCENEGGIATURA: Dario Argento
CAST: Daria Nicolodi, Giuliano Gemma, Veronica Lario, John Steiner, John Saxon
NAZIONALITÀ: Italia
ANNO: 1982
USCITA: 28 ottobre 1982

PAURA, PAURA

«L’impulso era diventato irresistibile. C’era una sola risposta alla furia che lo torturava. E così commise il suo primo assassinio. Aveva infranto il più profondo dei tabù e non si sentiva colpevole né provava ansia o paura, ma libertà. Ogni ostacolo umano, ogni umiliazione che gli sbarrava la strada poteva essere spazzato via da questo semplice atto d’annientamento: l’OMICIDIO». La lettura del brano di un libro, con la voce off di Argento riconoscibile per la tipica inflessione romanesca, introduce l’ottavo film del regista, storia di un serial killer nella Roma bene che agisce su emulazione degli efferati omicidi raccontati in Tenebre, l’ultimo romanzo del giallista americano di successo Peter Neal, che, trovandosi a Roma proprio per la presentazione del libro, verrà inevitabilmente coinvolto nella vicenda.

Tenebre è tutto costruito su due sviamenti. Il primo di questi riguarda il titolo: il film rappresenta l’esatto opposto di quello che esso prefigurerebbe. È un thriller solare, luminoso, algido. Argento abbandona le atmosfere gotiche, spettrali e irreali dei film precedenti, Profondo rosso, Suspiria e Inferno, e le irreali luci policrome baviane degli ultimi due, in favore delle architetture moderne asettiche, degli interni “high tech”, dell’urbanistica spaziosa, anonima, del quartiere EUR di Roma. Di più, evita qualsiasi ricorso al fantastico e al soprannaturale, presente invece in quei film, e in altri a venire, anche quando limitato alla parapsicologia come in Profondo rosso e Phenomena. Il riferimento stesso alle Tre Madri è ambiguo e allusivo: la Mater Tenebrarum era quella di Inferno e risiedeva a New York, dove in effetti inizia il film Tenebre per poi trasferirsi a Roma, territorio della Mater Lachrimarum. Argento rimane legato a quelle geografie e le efferatezze, le aberrazioni e il delirio che deflagrano in Tenebre potrebbero essere dovuti all’influenza negativa della dimora di una delle Madri, delle quali si dice, in Inferno: «La terra dove le case sono costruite diviene mortifera e pestilenziale così che gli edifici intorno e a volte l’intero quartiere ne maleodora».

Tenebre sembra ripercorrere tanti elementi argentiani svuotandoli di ogni possibile connotazione arcana e metafisica. L’incunabolo con fregi di Inferno, diviene qui, con la stessa funzione, un moderno best seller; l’aggressione del cane in Suspiria, in una piazza lugubre dalle severe architetture neoclassiche viene rifatto in un contesto residenziale a giardini e villette. Le sculture, tanto presenti nel cinema di Argento, a partire dal suo primo film, L’uccello dalle piume di cristallo, sono qui rappresentate da quella acuminata, moderna e astratta, che trafiggerà provvidenzialmente Neal. Argento riesce a inventarsi anche un ardito omicidio in pieno giorno, quello dell’agente dello scrittore, in una piazza assolata in mezzo alla folla tra bambini che giocano e coppiette che litigano. Anche le scene notturne sono paradossalmente luminose, rese con una fotografia fredda, gelida, grazie a lampade elettroniche a scarica, spesso illuminate dai lampi di un temporale. Le tenebre sono quindi una dimensione mentale, quella della follia che esplode nel finale, di notte sotto un acquazzone, con le urla di Daria Nicolodi, unico personaggio sopravvissuto al massacro del film.

Il secondo elemento fuorviante riguarda la struttura a detective story classica richiamata dalla citazione da Il mastino dei Baskerville di Conan Doyle: «In un’indagine, eliminato l’impossibile, quello che rimane — per quanto sembri improbabile — deve essere la verità». I film di Argento, e Tenebre non fa eccezione, rifuggono dallo schema classico del giallo, quello rappresentato dalla risoluzione dell’enigma, di cui si fornisce, al dipanarsi della narrazione, una serie di indizi da cui risalire alla soluzione con un meccanismo induttivo o deduttivo. In Argento l’indagine si risolve invece per intuizione e molto spesso questa consiste nella rilettura di un’immagine ambigua, nella reinterpretazione corretta di una scena, sedimentata nei ricordi, cui si è assistito, nella focalizzazione di un dettaglio che rimaneva in ombra. Il quadro che si rivela uno specchio in Profondo rosso ne è l’esempio più celebre, concepito peraltro prima che l’avvento dell’home video permettesse allo spettatore di tornare indietro a controllare il frame. Il cinema di Argento è basato sull’occhio, sullo sguardo, sulla visione. Visione che può essere coatta come in Opera, con occhi tenuti aperti da spilli, o può essere l’immagine cristallizzata nella retina del defunto di 4 mosche di velluto grigio, che potrebbe essere anche quella dell’autista Gianni, di Tenebre, che riesce a scorgere il volto del suo assassino proprio un istante prima dell’ultima scintilla di vita. In Tenebre ci sono due di questi momenti di disambiguazione dell’immagine fissata nella memoria. Il primo è a opera del suddetto Gianni che ricorda essere stato Berti a pronunciare la frase «Le ho uccise io», segno che il colpevole era lui fino a quel momento. Il secondo è nel finale quando il capitano Germani ritornato in auto intuisce che il rasoio con cui Neal si era sgozzato era in realtà finto. Questo è lo svelamento stesso del trucco cinematografico da parte del regista. E ad accorgersene è proprio Germani che si era dichiarato un inetto appassionato di gialli, incapace di scoprire l’assassino prima della fine del libro. Ci riuscirà con Tenebre romanzo, “indovinando” l’assassino a pagina 30, ma non con Tenebre film in cui arriva sempre troppo tardi. Tra i due investigatori del film, Germani e Neal, il secondo fa onore alla sua professione di giallista utilizzando il classico metodo deduttivo alla Agatha Christie e arrivando in breve tempo a individuare l’omicida in Berti, semplicemente incrociando due indizi, cosa che non riesce al capitano Germani («Non mi ci volle molto per accorgermene» dirà). Non a caso Neal ha il volto di Anthony Franciosa, in quegli anni celebre come il detective televisivo Matt Helm. Ma Neal va ben oltre, sostituendosi a Berti come omicida. Berti sarebbe il classico elemento fuorviante di una detective story tradizionale, il sospettato numero uno, innocente proprio perché il più prevedibile. Argento torna più volte su questi cliché. Nello scambio di battute tra Germani e il medico legale che dice che la vittima aveva avuto un rapporto sessuale prima di essere uccisa: «Non è detto che l’amante sia l’assassino» «No, ma di solito lo è». Anche alla fine gioca la carta dell’ultimo dirottamento facendo subodorare che sia Jane la colpevole. Nel sostituirsi all’assassino più prevedibile — che poi è quello che si assume il ruolo di mettere in scena gli omicidi scritti nel romanzo, di passare dalla parola scritta alla visione — Neal giustifica così la frase di Conan Doyle sulla soluzione che deve essere la meno probabile. «Il resto fu come scrivere romanzo» dirà alla fine. Si moltiplicano le matrioske: vita/finzione, letteratura/cinema. Il canovaccio stesso del film parte da un episodio reale successo al regista mentre si trovava in un albergo di Los Angeles, dove riceveva telefonate minacciose da un anonimo squilibrato. Argento, proprio come fa Neal nel film, cercò di elaborare un profilo psicologico di quella persona sconosciuta, studiandone la voce nelle telefonate che registrava.

Per una volta in Argento l’assassino non è una donna, forse perché vuole sgombrare i dubbi sulla sua misoginia, così come Neal rifiuta con veemenza l’appellativo di maschilista dato al suo romanzo dalla giornalista lesbica femminista. Le donne sono colpevoli ideali solo perché meno sospettabili. E in Tenebre Argento mette in scena tutta una varietà di ruoli sessuali, dalla coppia di lesbiche all’ermafrodita (o trans) Eva Robin’s che interpreta il ruolo della ragazza uccisa da Neal quando era giovane. Ed è una donna, Ann, a vincere solo perché sopravvive, all’ecatombe. Con il suo urlo catartico finale, con le mani tra i capelli, sgomenta e sopraffatta dal delirio e dal terrore, segna la fine di un conto alla rovescia verso l’esplosione della follia, che il film costruisce con un meccanismo rigoroso, seppur con sbavature. Tutto viene travolto dalle tenebre, dall’oscurità e dall’oblio. 

Condividi

Articoli correlati

Tag