THE CELL di Tarsem Singh

REGIA: Tarsem Singh
SCENEGGIATURA: Mark Protosevich

CAST: Jennifer Lopez, Vince Vaughn, Vincent D’Onofrio
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2000 

FORMA E SOSTANZA, FORME E STOSTANZE

Il cinema secondo Tarsem Singh è tutt’oggi un enigma. Cosa (ci) propone? Qual’è il filo d’Arianna che lo tiene assieme? Siamo di fronte ad un visionario avvezzo al paradigmare sciarade per immagini, o (solo) in presenza di un abile venditore di fumo? Tarsem resta uno sfuggente incompreso, piccolo M. Night Shyamalan al cospetto del quale la critica non può non restare, se non basita, almeno spiazzata e stupefatta. In quanti hanno realmente compreso Unbreakable o E venne il giorno? Beh, il medesimo punto di domanda potremmo utilizzarlo per chiederci di The Cell o Immortals. Cultore della forma a tutti i costi, Tarsem è solito sacrificare la sostanza sull’altare della prima: l’idea, il soggetto, l’appunto iniziale, al pari di sceneggiatura e limitrofi, altro non sono che pretesti utilizzati per (dis)fare e sopratutto mostrare dell’altro. Al pari di Shyamalan Tarsem prende, stravolge e riplasma a sua immagine, pensiero e somiglianza, riducendo all’osso il contenuto al fine di elevare a potenza la superficie squillante. The Cell ne è la prova primigenia, esordio che si configura come manifesto di una poetica cinefila a partire da quei primi, sgargianti minuti, immagini di celluloide impresse su tela da un Rothko avant-pop, intento a rinfrescare per puro diletto lo sfondo desktop del suo pc. Alla musa barocca e surrealista (pardon: espressionista astratta) tutto è concesso, compreso il pretesto di un racconto esplicitamente manierista (Il silenzio degli innocenti), senza dimenticare il dazio che gli stessi interpreti sono costretti a pagare: poco più che pedine giocattolo, soldatini di piombo schiavi di un compitino ridotto a cliché, perché nel cinema secondo Tarsem ciò che davvero conta è la missione iconografica affidata alla macchina da presa. The Cell disturba e irretisce la mente classica e conservatrice di chi guarda, analizza e critica. Disturba e irretisce attraverso un personaggio portante mai approfondito psicologicamente (nonostante lei nelle menti altrui entri giornalmente) bensì appena abbozzato, tramite un detective che meno credibile e stilizzato non si può, per merito di un serial killer ampiamente standardizzato e prevedibile, in grado di mettere a dura prova ogni più paziente aspettativa; nonostante ciò The Cell dimostra di essere avanti interi lustri rispetto alla concorrenza che verrà: The Cell che omaggia gratuitamente Il pianeta selvaggio anticipa Avatar e i suoi doppi fluttuanti, The Cell che (auto) cita Losing my religion è già Ichi the killer con i suoi anelli nella carne sanguinante, The Cell che dimostra di conoscere a mena dito Nerdrum, Hirst e Giger apre la strada agli inserti videoartistici di Franklin, The Cell che con la sua audacia zen rimpicciolisce a clone lo Zhang Yimou ultimo e new age, gettando il guanto di sfida ai futuri Kill Bill e Lady Vendetta per merito delle gesta, prima omicide e poi religiose, di un’eroina all’epoca universalmente già pop di suo: qui pronta a dividersi tra un’esecuzione spadaccina in un contesto dichiaratamente Snowblood e non paga sdoppiarsi subito dopo, così da travestirsi in immagine sacra intenta a donare un nuovo battesimo alla realizzata vittima degli abusi che furono. A Tarsem Singh occorre il tempo di un esordio per smascherare ogni Zack Snyder prossimo futuro, regalando a chi guarda la prospettiva di una nuova fantascienza, liquida e artisticamente intratestuale, dimostrando anche ai più conservatori che la storia, il racconto, la narrazione, i generi e la credibilità dei personaggi possono, per una volta, venir accomodati in sala d’attesa e passare in secondo piano. Gioia per gli occhi.

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