THE SOCIAL NETWORK di David Fincher
REGIA: David Fincher SCENEGGIATURA: Aaron Sorkin
CAST: Jesse Eisenberg, Andrew Garfield, Justin Timberlake
ANNO: 2010
IN RITARDO SU THE SOCIAL NETWORK
0. DISCOLPA
Questa recensione arriva con quasi un mese di ritardo sull’uscita del film: probabilmente il momento è andato perso, come già perdute appaiono spesso certe uscite cinematografiche italiane, e di questo già in molti se ne occupano ed accorgono, e non è affar di adesso, qui. Chi sta scrivendo (e avrà scritto, questo residuato di diario mentale basato su una sola visione di The social network) non può far altro che scusarsi con tutti gli invisibili che leggono, e avrebbero voluto leggere prima, prima che il tempo mal conciasse la loro visione, effettuata o presunta, fanaticamente o col distacco dell’immagazzinamento cinefilo, che nel tempo esaurisce la verve verbale, tanto che, anche adesso – soprattutto adesso, inesorabilmente – non ci sarebbe nulla da più scrivere; un atteggiamento deleterio e dannoso, un atteggiamento che lo Zuckerberg di Fincher avrebbe bollato a morte, relegandolo a un paio di battute di una delle scene processuali del film.
La recensione, se ha ancora motivo d’esistere (venir letta), inizia adesso. Cuccatevi la pappardella.
1. FINCHER E NOLAN: DUE STOICI
C’è un presunto assunto ormai assodato da cui partire, riguardo la materialità di The social network, tralasciando la sua nuclearità registica, di conseguenza negandone un animo e dandogliene un altro: questo non è un film su Facebook (un film su Facebook è Feisbum!, condannato ad maledetta mancanza di gloria istantanea), né il film di Facebook (come potrà essere il film di Youtube il taglia-e-cuci che Ridley Scott e Kevin Macdonald stanno provando a mettere insieme); qui di facce ci sono quella sempre più ingiallita e stanca di Jesse Eisenberg e quella sdoppiata di Armie Hammer, di libresco solamente i chili di verbali di processi e le pagine di programmazione informatica – un tutto che è cumularsi dissociato incrociato e di dissociazione, assuefazione, ossessione, determinazione, aberrazione, spinta e ricerca di un midollo architettonico (informatico, narrativo) che necessita una “a” (scarlatta d’adulterio verso l’umanità) davanti: asociale, monumento nevrotico del dovere, del sintomo misantropo che forse è realmente solo amore trasportato.
Abbondantemente ricusati certi peccati di gelidità a David Fincher, ripescando un termine à la mod qualche anno fa e ormai stigmatizzato dal digitale: asettico, come pulito, inorganico, distaccato, tendente al vuoto; le stesse mosse verso Christopher Nolan (che dovrebbe comunque andare a zappare la terra, tranne quando produce i film di Zack Snyder), anch’esso uomo delle impalcature e dei progetti, delle damigelle che da Mc Guffin diventano cornice e poi unico elemento (im)portante. C’è idea geometrica che accomuna i due: una contaminazione di stoicismo. Dei personaggi e delle scacchiere a cui sono destinati, unitariamente (im)pavidi; del loro venir meno all’accondiscendenza, al compiacimento immedesimativo spettatoriale, dell’abbandono degli stereotipi del dovere di cronaca. Con risultati opposti, divario tra intento e capacità, ma non è questo il momento, solo: The social network è cioè che Inception avrebbe potuto essere senza la boria e la verbosità ridondante del suo regista.
The social network insieme dice e non dice, esalta e mette da parte: perfetto ladrocinio d’interesse popolare nel giro di pochi minuti sovvertito, piombo in oro, invito al teatro degli orrori, dal ciò che si è (costretti a non fare) ad una possibilità profetica uni(versa)laterale; come con lo stesso fiabeggiante metropolitano primo quarto d’ora di Fight Club, qui basta una prima ed unica scena – felpa GAP, birra, discorso (presunto) spocchioso – e la rivolta all’umiltà imposta incomincia. A uno yuppie degli anni novanta servivano i pugni, i lividi, il sangue raggrumato, dei devoti; ad un informatico degli anni zero i computer, i soldi, degli schiavi.
Progetto Mayhem, progetto Facebook: portarsi via, odissea che smuove tutto, facendo combaciare costruire/distruggere, desiderio/annullamento, umiliarsi/esaltarsi, espandersi/ritrovarsi nell’unico, egoismo/sacrificio, giro del mondo per tornare al sentimento rimasto raggelato, impedito, handicappato;Fincher come un Sion Sono striato (e stellato) non più grafico e senza sangue, generando catastrofi, avvicinando apocalissi, per poi tornare ad un – non più banale – semplice sentire: esser non più umani per ritornare umani, ricucire un abbraccio spezzato, mutati in nuvole e ricaduti in pioggia, stato confusionale, e la contrizione e l’insonnia itterica si leggono allo stesso modo sulla faccia di Edward Norton narratore che su quella di Jesse Eisenberg Mark Zuckerberg.
2. IL FANTASMA DELL’OPERA
Del lato pop o direttamente sentimentale (perchè The social network avrebbe potuto essere anche solo la storia di un amore non dato) a Fincher poco o nulla importa: nel suo Cinema fenomeni di massa, omicidi, giochi di ruolo extralusso, edifici all’avanguardia, contano solo come meccanismi, situazione, ossessione, feticismo tecnicistico; i suoi film sono storie di gelo insinuato, di una caccia alla perfezione, rapita a valanga dal piccolo avvenimento/auspicio del voler essere organici, che in assenza di un manuale sull’esistere si rifugia nei manuali d’istruzione (i riferimenti diretti alla programmazione php non vengono mai edulcorati e il bene del sito si sostituisce a qualsiasi interazione umana) e nel darsi alla macchina(zione), al fato artificiale (lo stesso che, purtroppo, esagerando nell’aderenza, nell’assenza di un villain adeguatamente imputato, rendeva Il curioso caso di Benjamin Button un film senza regista) d’un’indagine o d’un piano omicida/suicida, all’anoressia/bulimia di volontà.
E dopo esser stato cerimoniere al funerale della pellicola (dentro e fuori la diegesi, lezioni di proiezione e grana da blow up eccessivi) nel 1999 ed aver fatto un film basato sull’ipertrofia cinetica nel 2002, Fincher adesso s’appropria di tutto lo spotless che il digitale può dare, di luci basse e pastose, d’immobilità necessaria, di piedi piantonati per terra volti al reale (e basati sul documento), di effetti digitali non più speciali, di travaso tra hollywoodiano di retrò classico e retrò moderno e fin troppo nuovo, fin’alla convinzione di perpetuamente ritrasporre/rigenerare uno dei suoi punti di riferimento anche al di fuori delle ambientazioni e dei generi: Chinatown, in un finto basso profilo che anzi è impugnare del tutto e senza vezzi.
3. PRESS F5 FOR “WHERE IS MY MIND”
Vibrante constatazione: a seconda del lato da cui lo si prenda, il Cinema di Fincher è torvo (per quanto appena detto) o caldo, come miele nascosto con la pece messi ad asfaltare una strada di centoventi minuti, che mai sobbalza, che segue una delle cosiddette sceneggiature di ferro (tanto resistenti e pesanti da far male cadendo, tanto difficili da squarciare per farne Cinema), che rigorosa sa dove interrompersi con l’estemporaneo virtuosismo d’una gara in canoa fatta di cgi e focus artificiali e Fritz Lang/Grieg remixato (quasi a voler visivamente reidratarsi, a dettare il giusto intervallo, a dare uno sbocco con qualcosa di conosciuto), che non rilascia di troppo un’espressione o una parola dei suoi attori, che non palesa disappunto o allegria (forse del tutto assente); rivoluzioni presenti, evidenti, dichiarate, ma indecifrabili nel loro essere anche giallo interiore (o talmente esteriore da risultare sparso o irrecuperabile) come se i pezzi, che altro non formavano che un punto di domanda, dietro cui andavano i protagonisti di Zodiac non fossero che Zuckerberg stesso, riconciliante del binomio/crasi di vittima e carnefice ch’erano Norton e Pitt in Fight Club, con Justin Timberlake/Sean Parker a far veci sporadiche del diavoletto/messia aforismatico Tyler Durden; con l’enfasi mai-realmente-tale dell’elettronica delle musiche di Trent Reznor e Atticus Ross, che ingrossano ma mai beatificano, come quelle dei Dust Brothersundici anni fa (e una sola traccia alla Desplat di Benjamin Button avrebbe potuto rovinare tutto).
Zuckerberg è un fantasma, sia come antieroe sia come ricercato, il cui divenire ectoplasma è dato da quel ritorno a casa fatto di pianoforte e titoli di testa, dopo un due di picche, avvenimento che pare Mc Guffin raffazzonato (e accantonato per tutto il film) ma che diventa prima cornice, poi chiave unica e poi ancora dissolvenza e anima assoluta. E forse Fincher si sbilancia qui rispetto alla giusta distanza da mantenere, sbattendoci in faccia ciò che in altre sue opere in modo sparso e diversificato veniva manifestato: i suoi sono film sull’assenza d’amore. E un «Sei uno stronzo» pontifica tutto il divenire, creandolo, quello stronzo, che si circonda di schiavi e s’adopera nell’ombra con solerzia oscura.
Ancora, The social network è la storia delle conseguenze di un omicidio mai avvenuto (ma, per la prima volta, visto), e di conseguenza senza nessuna soluzione, se non nell’ipotesi intuitiva (Zodiac); la totale mancanza di significato di qualche modo dell’esistere, a men che esso, appunto, non venga creato artificialmente dall’esistenza stessa (The game); la salvezza assente (o meglio, nell’essere assenti – Fight Club), l’autofagocitarsi (Se7en), il dubbio (quello John Patrick Shanley non ha saputo mettere in scena) che rimane indelebile, sospeso, galleggiante; la sensazione che qualcosa di inutile sia tutto ciò che si possa ottenere.
I(l) personaggi(o) di Fincher in corsa verso qualcosa, che non è né le motivazioni assassine di un semplice thriller né l’amore puro, astratto e nitido di un romance, e di qui un telegramma del suo Cinema e del suo correre: «Non so cos’è. Ma eccola. Ma anche no. Fottutamente», scafandro di una scimmia spaziale, che sia fatta d’un testimone che arriva troppo tardi, d’una sinfonia di palazzi che cadono, di un continuo premere F5 per una notifica.
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