THIS IS ENGLAND ’86 e ’88 di Shane Meadows
REGIA: Shane Meadows
SCENEGGIATURA: Shane Meadows, Jack Thorne
CAST: Joseph Gilgun, Vicky McClure, Thomas Turgoose, Stephen Graham
NAZIONALITÀ: UK
ANNO: 2010/2011
PROLETARI NELLA MANO DI DIO
Calarsi nel mondo degli skinhead britannici non è impresa semplice o di facile soluzione, soprattutto quando lo si vuole trasporre e raccontare cinematograficamente. Il luogo comune ci porta spesso a confondere le teste rasate con gli hooligans del mondo calcistico e ad etichettarle a prescindere come persone dal comportamento violento, razzista e privo di sensibilità alcuna. Sicuramente gran parte degli aderenti al movimento che è andato formandosi in Gran Bretagna sul finire degli anni Sessanta e soprattutto le sue derivazioni successive (o degenerazioni che dir si voglia) nel resto d’Europa, con a capo la Germania, hanno contribuito a diffondere questo aspetto nell’immaginario collettivo. Aspetto che ha messo in ombra tutte le connotazioni socioculturali nate dal sottoproletariato delle periferie inglesi con a capo i rude boy di origine giamaicana, rendendo dunque improbabile la questione della supremazia razziale che spesso viene accostata agli skinhead.
Shane Meadows, che proprio da quel sottoproletariato proviene, riesce invece a dare una visione completa, complessa e umana di personaggi che, loro malgrado, si trovano nella condizione di anime perse e sofferenti che hanno ereditato dalle proprie famiglie frustrazioni e disperazione. Già nel 2006 con il film This Is England, il regista dello Staffordshire ci aveva portato attraverso risvolti autobiografici all’interno di un movimento che voleva assurgere alla funzione di famiglia. Famiglia intesa come porto sicuro nel quale nascondersi e dove riuscire a trovare altre anime sofferenti, capaci di comprensione, solidarietà ed aiuto. Poco importa se poi spesso questa “famiglia” prendeva una piega violenta con la quale, non solo ribellarsi ad altra violenza, ma inconsapevolmente generarne di nuova prendendo le sembianze stesse della paura che si cercava di combattere e di allontanare con tutte le forze, la solitudine (violenza spesso resa anche in maniera grottesca come si può notare nella esilarante scena della rissa a fondo articolo). Meadows nelle due mini serie televisive This Is England ’86 e This Is England ’88 riesce in maniera ancor più avvincente e convincente ad offrirci una carrellata sui volti di personaggi a metà strada tra freaks ed eterni adulti incompiuti riuscendo a darci una visione ancor più completa di questo universo.
La macchina da presa è quasi sempre sporca nei movimenti ma pulitissima nella fotografia dove spesso e volentieri grandangoli da 17 vengono posti a pochi millimetri dai volti dei protagonisti che inquadra quasi a volerli deformare e a donarci una prospettiva più ampia dei loro occhi, dei loro pensieri. Pensieri schiacciati da un passato da nascondere o da dimenticare che improvvisamente ritorna a far riaffiorare vecchi fantasmi, come nel caso di Lol (probabilmente la vera protagonista della prima serie), dalla paura di un uomo che vuole prendere il posto del padre morto in guerra, Shaun, o dal terrore di poter diventare come i propri genitori, dipinti come perdenti senza prospettive. Tutte paure che il regista inglese ci mostra come macigni posti su “probabili” ali che al posto di generare una reazione portano ad una stasi e ad un dolore ancor più forte e vivo che riduce i propri protagonisti in degli inetti a vivere di puro stampo D’annunziano. Il plot narrativo è quasi (e volutamente) inesistente. Il regista si limita a seguire i suoi personaggi nelle loro giornate tipo quasi a voler ripetere la tecnica del pedinamento che Zavattini rese celebre nel periodo del neorealismo italiano. Un taglio documentaristico che spesso e volentieri spezza il plot per darci una visione più ampia della realtà che stiamo osservando e che solo in alcuni snodi drammatici Meadows disegna con precise carrellate, dichiarando apertamente la propria presenza. Il paesaggio è quasi un personaggio aggiunto che si palesa attraverso cambi di fuoco ed incornicia tra il verde dei suoi prati e il grigio del proprio cielo figure a disagio con loro stesse che emergono in maniera ancor più straziante con ossimori che contrappongono sacro e profano, sangue e musica lirica. Nella prima puntata della prima stagione un primissimo piano di uno Shaun tumefatto e grondante sangue si contrappone ad un cielo limpido ed al verde smeraldo del prato sul quale cade stordito. Meadows mette in relazione gli occhi limpidi del suo personaggio alla ricerca di una purezza che sembra impossibile da trovare imprigionato nella condizione in cui si trova. Il tutto racchiuso dentro il mitico Mondiale di calcio del 1986 che si chiuse per gli inglesi con la drammatica eliminazione ai quarti di finale in favore dell’Argentina di Diego Armando Maradona e della sua “Mano di Dio”. Partita che ebbe una doppia valenza non solo sportiva ma anche socio-politica poiché mise calcisticamente l’una contro l’altra le due nazioni protagoniste della Guerra per le Isole Falkland che si combattè tra il marzo ed il giugno del 1982 e che tante vittime aveva mietuto all’interno delle famiglie di quel sottoproletariato inglese di cui This Is England parla.
Mondiale che fa da sottofondo alle azioni di tutti i personaggi e che, soprattutto nella puntata finale della prima stagione, viene utilizzato con una doppia funzione: quella di passione che abbatte le differenze sociali e quella di mezzo che dona la possibilità di sognare e di fuggire dalla realtà anche solo per novanta minuti. Il quarto di finale tra Inghilterra e Argentina è il filo che unisce tutte le storie della quarta e ultima puntata della prima stagione, durante il quale assistiamo a diverse tipologie di sofferenza che vanno da quello fisico e psicologico (reso dalla scena dello stupro), al senso di colpa per aver tradito la fiducia del migliore amico (Milky e Woody), all’odio nei confronti di un padre pedofilo (Lol). Il finale non è per nulla consolatorio e ci riporta a quel senso di finta pace che si respira per tutta la serie e che già ci era stato introdotto nel film del 2006. Una mini serie che in realtà assomiglia più ad un film spezzato in quattro parti che non riesce ad essere altrettanto coinvolgente ed efficace nelle tre puntate dedicate al 1988. Al di là della contestualizzazione storica che fa da sfondo alle storie e che le lega indissolubilmente, il meccanismo non sembra funzionare alla stessa maniera perché ripropone un qualcosa di già visto e per questo stantio e noioso. Per non parlare poi delle storie che diventano più drammatiche e che focalizzano la propria attenzione maggiormente sui singoli personaggi e ai loro cambiamenti anziché mostrarci i cambiamenti dei meccanismi della “famiglia” vera e propria. L’unica parte interessante è quella riguardante Shaun che torna ad avere risvolti autobiografici della vita del regista inglese.
In sostanza Meadows funziona quando mostra e narra di elementi universali, partendo da elementi particolari, mentre fallisce quando questi ultimi diventano il fulcro narrativo della propria opera. Il linguaggio che propone pur non essendo originale è toccante e onesto non cercando mai né l’assoluzione, né la pietà per i propri personaggi. Cosa assai complessa se si pensa che il rischio di creare una apologia del modello skinhead poteva nascondersi dietro ogni inquadratura.