TIME
REGIA: Kim Ki Duk
CAST: Hoo Jung-Woo, Park Ji-Yeon, Seong Hyeon-A
SCENEGGIATURA: Kim Ki Duk
ANNO: 2006
A cura di Sandro Lozzi
AMORE: DA CONSUMARSI
PREFERIBILMENTE ENTRO
Ci avevano preparato al peggio.
I primi fortunati spettatori di Time,
tredicesimo lungometraggio del coreano Kim
Ki-Duk, ci avevano parlato di un'opera che, come i suoi personaggi, aveva
perso tutto il suo fascino scontrandosi con la parola parlata, di un film in
cui Kim Ki-Duk aveva riempito con i
dialoghi il vuoto lasciato dall'ispirazione, di un film che diceva e non (più)
sottintendeva. I "fan" di
Ferro3 non riconoscevano più il loro beniamino, autore di quel cinema tanto
soave e magico quanto silenzioso, perso ora tra le pagine di una sceneggiatura
lunga il doppio del solito.
Ci avevano parlato di mancanza di idee, di dramma di stile, di assenza di
magia. Del peggior film di Kim Ki-Duk.
Invece, per fortuna.
Sì, invece e per fortuna, Time non è
nulla di tutto questo. Time non è che
l'ennesima riflessione immaginata (nel senso più letterale del termine) e
sussurrata come a gesti, quasi empaticamente, dal suo autore, dove i gesti sono
tagli e figure di montaggio, e il controllo empatico diventa possibile e reale
attraverso la fisicità mediatica della macchina da presa, a un tempo organo
ricettivo, filtro comunicativo, e mezzo espressivo. E se è vero che "the
medium is the message", ecco allora che Time non può che parlare - e lo
fa, attraverso il suo sottotesto - di quell'oggetto mediatico, di macchina da
presa, di cinema.
Quella rappresentata da Time è
infatti un'allegoria forse ancora più ostica rispetto ai precedenti lavori del
coreano, sorretta da una sceneggiatura geniale, piena zeppa di rimandi e di
riflessioni sul tempo e su cosa sia il tempo per l'uomo. Non c'è forse una
scena del film in cui non venga nominata (o al limite richiamata) una più o
meno ben definita quantità di tempo: 6 mesi, un mese, 5 mesi, 10 minuti, tre
ore, 2 anni, un secondo, sempre, mai, tutta la vita... I dialoghi segnano il
trascorrere del tempo, nel film, nei personaggi, nelle persone. Le parole non
servono a Kim Ki Duk per dare una
dimensione in più ai suoi personaggi, non servono per comunicare, ma solo per
scandire i secondi trascorsi, i protagonisti potrebbero anche recitare la vispa
teresa, non cambierebbe nulla. I dialoghi non sono veicoli di senso, o peggio
ancora di messaggio; sono invece una sorta di metronomo consapevolmente
impazzito che cerca di richiamare l'attenzione urlando a tutti la sua follia.
Dunque Kim Ki-Duk ancora una volta
non concede nulla allo spettatore, lo pervade anzi di false illusioni, come
falsa si rivela per la (o una?) protagonista l'illusione di sfidare e vincere
il tempo attraverso l'operazione chirurgica, operazione che non a caso apre e
chiude il film, essendo il cardine del suo snodo narrativo e semantico. Intorno
all'operazione chirurgica del "cambio" di volto ruota infatti la
vicenda come tutto il discorso dell'autore: l'essere umano esiste solo nel
momento in cui è percepito dagli altri, è solo nel momento in cui (lo) si
concepisce come fuori da sé, non può conoscersi, osservarsi, definirsi, se non
attraverso la percezione che di lui hanno gli altri, coloro che lo conoscono,
osservano, definiscono. Un concetto fermo e attecchito nella cultura zen, ma
altrettanto ben radicato nella tradizione del pensiero occidentale, anche da
prima della fortunata formula di Berkeley
("Esse est percipi"), da prima che l'idealismo hegeliano lo ponesse
in termini spiritualistici (l'Assoluto) e che Lacan provasse a definirlo in maniera più rigorosamente pragmatica
("Ciò che mi determina nel reale come soggetto, è lo sguardo che sta
all'esterno").
La protagonista del film See-Hee non fa che chiedere al partner, Jim woo, se
questi sia stufo di vedere sempre la sua faccia, gli chiede di pensare ad
un'altra mentre fanno l'amore, arriva a coprirsi il viso con le coperte come ne
Gli amanti di Magritte. Nella prima
parte del film, si arrabbia con Jim Woo se questi guarda altre ragazze, e
ancora di più se altre ragazze lo guardano e gli dedicano attenzione, perché sa
che il suo ragazzo esiste solo quando è guardato, quando è percepito. Per
questo vuole che Jim Woo guardi solo lei, per farla esistere ogni momento, e al
tempo stesso non vuole che altre lo guardino, in modo che Jim Woo esista solo
per lei.
Ma è tra i meccanismi di questo processo cognitivo-esistenziale che si
inserisce la variabile tempo, è qui che il tempo determina la vita degli
uomini. Quanto tempo dura l'amore? Quanto tempo occorre per rinnovarlo? Esiste
il modo di eliminare la variabile tempo da una relazione, in modo da far durare
in eterno la passione che l'alimenta? Sono questi (e altri sulla loro scia) gli
interrogativi che Kim Ki Duk pone e a
cui risponde, spietato come al solito, senza speranza se non in qualcosa di
impensabile al di fuori di una realtà onirica, in cui un uomo può diventare un
fantasma per salvare la donna che ama, in cui una ragazza può fare l'amore con
una freccia scoccata dallo spirito dell'uomo che ama, in cui il tempo, invece
che linearmente, può scorrere in circolo, e far durare le cose per sempre.
Time è dunque un film non tanto sul
tempo quanto sulla percezione. La percezione che l'uomo ha del tempo, dell'uomo
stesso (il fuori da sé), del cinema.
Time non è magico come non lo sono
gli altri film del suo autore.
Time è la figurazione di un'idea, di
un sogno, di un pensiero, realizzata con la solita potenza metaforica, la
solita disarmante semplicità, la solita ispirazione.
D'altronde non sono appassionato di esoterismo, e alla magia del cinema non ho
mai creduto.
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