UNA TOMBA PER LE LUCCIOLE
REGIA: Isao Takahata
SCENEGGIATURA: Isao Takahata
ANNO: 1988
A cura di Francesco Giulioli
GIAPPONE ANNO ZERO
Vedere Una Tomba per le Lucciole è come procurarsi una ferita al cuore: se ne esce indeboliti. La storia, ambientata a Kobe verso la fine della seconda guerra mondiale, è il
racconto lineare e spietato della sopravvivenza di due fratelli orfani di guerra, Seita e Setsuko, rispettivamente un ragazzo di 14 e una bambina di
4 anni. Persa la madre nel drammatico bombardamento che apre il film, e con il
padre – un ufficiale di marina – che non tornerà più dal fronte, i
due saranno costretti a provvedere da sé ai propri bisogni in un Giappone
materialmente immiserito e psicologicamente provato dalla guerra che sta
perdendo. Dopo una sgradevole convivenza con una meschina zia, i ragazzi vanno
a vivere da soli in una cava sulla riva del fiume. Qui i due sperimentano un
progressivo distacco dalla società e i crescenti morsi della fame. In un simile
contesto, gli sforzi di Seita
si riveleranno inadeguati, ed entrambi moriranno di inedia.
Come tutti gli anime, anche Una Tomba per le Lucciole è conosciuto fuori dal
Giappone soprattutto dalle schiere specializzate degli amanti di questo genere.
Eppure, il capolavoro di Isao
Takahata ha una tale portata universale da aver
riscosso il consenso di ogni tipo di pubblico, che lo ha sempre riconosciuto
come un film tanto assolutamente necessario quanto assolutamente doloroso. Un film che va visto dunque, ma che è allo stesso tempo così
straziante da scoraggiare la visione, oltre che quasi impossibile da rivedere
una seconda volta. Questa ‘invedibilità’
è il tratto più caratteristico della sua ricezione (su internet i commenti di
questo tipo abbondano), l’aura che circonda la sua fama di opera commovente fino allo strazio. Fin dalla sua uscita
nell’88 fu considerato necessario diluirlo con il più solare Tonari no Totoro
di Miyazaki, collega di Takahata
e con lui fondatore dello Studio Ghibli: i due anime venivano proiettati
insieme. Del resto anche Akiyuki Nosaka,
l’autore del romanzo autobiografico a cui si ispira
il cartone, dichiarò di non aver mai riletto il suo stesso libro e, a quanto
sembra, non ha mai neanche visto il film.
Di insolito questo film, oltre alla straordinaria portata emotiva, ha anche il
fatto stesso di appartenere al genere dell’animazione, tradizionalmente
poco incline a raccontare la realtà senza deformazioni fantastiche,
specialmente quando è tanto cruda da includere mucchi di cadaveri carbonizzati
dalle bombe. Ma è proprio la scelta
dell’animazione come forma espressiva che rende efficace
l’approccio realista e che fa esplodere la portata emozionale del soggetto
narrato. Spesso i film di ambientazione storica sono
come ricoperti da una patina di fintezza implicita
nel concetto stesso di “ricostruzione” ambientale, che corre il
rischio del posticcio e del fasullo anche quando si avvale di una sfarzosa cura
del dettaglio. Tramite il disegno, che pure è il risultato di un accurato
processo di ricerca e di riproduzione, del tutto analogo a quello di un lavoro
dal vivo, Una Tomba per le Lucciole si libera dall’imbarazzo del
posticcio e realizza paradossalmente la forma più aderente al vero e più
rispettosa immaginabile. Non c’è nessun bambino contemporaneo cui
applicare vestiti di quarant’anni
prima, o da ricoprire con gli stracci di una miseria che non conoscerà
mai: le figure animate di Seita e Setsuka
sono i legittimi abitanti di un mondo omogeneamente e integralmente ricreato
dal disegno.
Rispetto alla durezza della materia trattata, l’utilizzo
dell’animazione non si risolve in un alleggerimento, ma in
un’intensificazione del contenuto. È come se le immagini disegnate
acquistassero una particolare forza iconica e simbolica, che fa passare le
emozioni in maniera più diretta e penetrante. La pulizia del tratto e il nitore
delle immagini tendono verso la stilizzazione, così
come il rigore geometrico delle inquadrature realizza un’eleganza formale
tipica del cinema giapponese. Ma la tendenza alla
rarefazione è bilanciata dalla ricchezza dei dettagli e dalla particolare
espressività dei volti. Allo stesso modo, la percezione formale del film si
situa in uno strano equilibrio: la gratificazione estetica che deriva dallo
splendore delle immagini rischia quasi di risultare
annichilita dalla reazione emotiva. Troppo difficile del resto porsi in una
posizione di distanza contemplativa di fronte a quanto accade
ai due protagonisti. Entrambi i poli dell’oscillazione seguono la scelta
dell’animazione come mezzo espressivo: da un lato la carica emozionale,
dovuta alla stilizzazione e a quel paradossale realismo di cui si è accennato,
dall’altro la costante consapevolezza dell’esteticità
dell’opera, del suo essere forma finemente lavorata.
Questo andamento oscillatorio trova una corrispondenza
anche nella struttura stessa della narrazione, basata sull’alternanza fra
piccole fughe nei piaceri ancora accessibili e ricadute nella crudeltà della
situazione: una gita al mare si conclude col ritrovamento di un cadavere e
l’inizio di un nuovo bombardamento. Non si tratta di un bilanciamento
artificioso, ma di un rappresentare la realtà nella sua interezza e nelle sue
contraddizioni: per questo anche un episodio spiacevole, come vendere i kimono appartenuti alla madre, può risolversi in un
momento gioioso, ossia in un pasto insolitamente abbondante. Il realismo del
film del resto, si realizza proprio attraverso una drammaturgia capace di
cogliere con semplicità la vita e i comportamenti umani nei dettagli più minimi e significativi. Raramente l’animazione si
spinge così a fondo nella rappresentazione della realtà materiale e delle sue
risonanze psicologiche, specialmente per quanto riguarda la sfera del cibo.
Vediamo quindi la zia che di soppiatto raschia il fondo di una pentola
incrostata di riso, o i ragazzi che, quando finiscono le caramelle alla frutta,
riempiono d’acqua la scatola vuota per recuperarne gli ultimi residui di
sapore.
Questo lottare contro la materia nel corso della storia darà luogo ad episodi
sempre più drammatici e disperati. Andare a vivere da soli comporta per i due
fratelli una totale emarginazione e segna l’inizio di una
odissea neorealista, in cui Seita arriva anche
a rubare per aiutare la sorella, su cui avanzano i segni della malnutrizione.
La storia procede inesorabilmente verso la morte – come annunciato fin
dalla prima scena – seguendo una traiettoria di entropia.
È questo il movimento principale del film, che trova la sua rappresentazione
più emblematica nella scena della tomba per le
lucciole. Di notte, la presenza delle lucciole nella grotta buia aveva
rievocato, nell’unico momento visionario del film, una sfavillante parata
della marina vissuta da Seita con il padre. Ma la
mattina seguente esse sono tutte morte e la piccola Setsuko, provvedendo alla loro sepoltura, rivela al
fratello di sapere che anche loro madre si trova in una tomba. La tomba per le
lucciole condensa dunque la morte della madre e del padre (la flotta giapponese
verrà distrutta di lì a poco), e segna la fine di
tutte le illusioni, mostrando come lo spirito e l’immaginazione cedano il
passo al disfacimento materiale. Che siano le pietose
bugie raccontate alla bambina o le mistificazioni della retorica militare, che
siano i sogni o i bei ricordi, tutte le forme dell’immaginario vengono
sconfitte dalla guerra, fragili come lucciole, proprio come i due ragazzi.
Ma neanche un’opera radicale come Una Tomba per le Lucciole consegna del
tutto il campo alla morte fisica: alla fine rimangono in scena i fantasmi dei
due protagonisti, che già erano apparsi a più riprese durante il film. Una presenza puramente spirituale che non serve a consolare o a
riscattare la morte, ma a trascenderla, senza negare una briciola del dolore
attraversato. Essi ci “riportano un oggetto
smarrito” (come recitava la tagline
dell’epoca), ossia il loro stesso dramma, di cui sono gli unici testimoni.
Muti, perché l’ingiustizia e l’orrore della guerra si rivelano da
sé, senza dichiarazioni o denunce (il film evita di assegnargli una coscienza
storica pacifista, che potrebbero ottenere solo a posteriori). L’oggetto
smarrito è infine lo stesso cartone, che, per tutto quanto detto finora, è
qualcosa di raro e prezioso nella storia del cinema. Anche il critico americano
“canonico” Roger Ebert
lo definisce come uno dei più grandi film sulla guerra di tutti i tempi, e la
sua definizione ci trova d’accordo. Ma si tolga pure la specificazione “sulla
guerra”, e saremo ancora più d’accordo.
(02/11/05)