IN TRANCE di Danny Boyle
REGIA: Danny Boyle
SCENEGGIATURA: John Hodge, Joe Ahearne
CAST: James McAvoy, Rosario Dawson, Vincent Cassel
NAZIONALITÀ: UK
ANNO: 2013
AND I SWEAR THAT I DON’T HAVE A GUN
Nel bene e nel male, il cinema di Danny Boyle continua a seguire una fedele convinzione: dirigere il prossimo film come fosse il primo, al fine di renderlo il più inaspettato possibile rispetto al precedente. Ne consegue che In Trance stia tematicamente a 127 Ore come The Millionaire a Sunshine, Millions a 28 giorni dopo e così via; l’inetichettabile irregolarità che di Boyle è principale prerogativa autoriale (e non solo nella trasversale scelta dei generi che di volta in volta si rivelano, intrecciandosi) accoda la sua ultima fatica alla personale tradizione filmografica del regista, mescolando ancora una volta le carte, svilendo, e spiazzando, le aspettative. Ciò, nonostante un incipit spinto fino ai limiti dell’autocelebrazione (voce off, sguardo in macchina, montaggio vicino alla frenesia televisiva di The Millionaire, panico e corsa che esplodono improvvise stile 28 giorni dopo), a conti fatti l’unico momento che valga davvero la pena salvare di questo Danny Boyle.
In Trance è confezione svuotata della carica sovversiva tipica del cineasta britannico e interamente costruita sulle sue palesi potenzialità stilistiche, forma esclusiva che trova la propria realizzazione tecnica coadiuvata dalle consuete trovate metacinematografiche, appena prima di imbellettarsi definitivamente con il fiocco di una fotografia decisamente troppo patinata, vestito da sera che ostenta la sua leccata concezione videoclip nonostante riporti la firma di Anthony Dod Mantle; fido collaboratore, tra gli altri, di McDonald e Von Trier. Assente ingiustificata la sporcizia alla quale il duo Boyle-Dod Mantle ci aveva abituato in 28 giorni dopo e 127 Ore, sacrificata sull’altare di una scala cromatica stucchevole – che nulla ha a che spartire con l’equilibrio di colori offerti da Millions e The Millionaire - un inno al kitsch spacciato per tendenza, mascherata dal dubbio gusto di maniera, comunque incapace di nascondere, a lungo, il vuoto lasciato da una metafora che non c’è; profondità di racconto pari, invero, all’immersione in un bicchiere d’acqua.
Danny Boyle (e con lui lo sceneggiatore John Hodge) non si è dimenticato come si fa del cinema, piuttosto pare aver momentaneamente accantonato come lo si costruisce e lo si racconta secondo le proprie prerogative di messaggio: In Trance è pellicola anemica, innocua, ad esser buoni materiale di scrittura che per rendere a dovere necessiterebbe, se non di un miracolo, almeno di una personalità maggiormente avvezza a certe derive; un Marc Forster prima maniera o un Rian Johnson, per tacere di Christopher Nolan. Affidato a Boyle invece, finisce per risultare talmente spersonalizzato da lasciar sospettare la commissione, ma Danny Boyle non è Spike Lee e In Trance non potrà mai diventare il suo Inside Man.
Il regista che fino a The Millionaire aveva mostrato una sola pistola (Una vita esagerata) e un’unica scena di nudo (Trainspotting), mette improvvisamente da parte la sua pudicizia e l’intolleranza verso le armi per lanciarsi in un progetto dove si spara troppo e si scopa altrettanto; non pervenuta l’anarchia filmica che una volta lo conduceva, assieme ai suoi personaggi, a sfidare il sistema in un confronto impari, punk e spesso e volentieri perdente. In Trance è un castello di carte condannato all’implosione e incapace di nascondere a lungo la finta complessità del suo intreccio narrativo, lo stesso che collassa nonostante l’ultimo, disperato tentativo di azzardare una similitudine tra l’affannoso richiamare alla memoria di James McAvoy e il percorso piastrellato di ricordi personali che portò Jamal Malik a trionfare nel gioco delle 12 domande.
In Trance regredisce il cinema di Boyle alla tendenza travisata dalla stragrande maggioranza delle produzioni inglesi d’inizio anni ’90, quando, all’indomani di Piccoli omicidi tra amici e sopratutto Trainspotting, l’Union Jack cinematografica si convinse a replicarne il modello esclusivamente estetico, creando mostri e cloni senza che questi ultimi avessero la benché minima cosa da dire e trasmettere, eccezion fatta per una buona regia. L’ultimo Boyle è una storiella da quattro soldi, che si perde tra quadri rubati e ipnosi ostentando Vincent Cassel nel ruolo dell’antagonista. Nulla di più telefonato, nemmeno fosse un film di Guy Ritchie.