l

TRANSFORMERS

REGIA: Michael Bay
SCENEGGIATURA: Roberto Orci, Alex Kurtzman
CAST: Shia LaBeouf, Megan Fox, Jon Voight
ANNO: 2007


A cura di Alessandro Tavola

AVERE DIECI ANNI

Il riscatto di un regista la cui presenza pareva dover rimanere socchiusa e boccheggiante in mezzo ai pregiudizi, al denaro, agli scherni, all’imponenza totale visiva delle sue pellicole la cui vitalità era così guizzante e impulsiva da apparire impersonale, non frutto di un occhio ma di un marchingegno, vuoi prima di Bruckheimer e ora di Spielberg, in una goliardicità sentimentale così semplice e puerile da risultare artefatta e ribattezzata “banale”, imperfetta costruttività di idee così comuni(cative), come se ciò fosse una velleità, quando invece si trattava di passione, rosea passione, concomitanza di benzina e acqua di fiori, mix dal profumo ammiccante e fermo nella mente, appartenente al passato e ad un accostamento che in una certa maniera spesso si sente di dover rinnegare, annegare nella particolarità per poi godere del ritrovamento del pensiero originale, lontani ormai dalla comunicazione diretta, ferma, sensibile, meravigliata e labile che ora trova pieno sfogo in Transformers, spogliata del dazio-contratto col pubblico che chiama e necessità di una guida, di una partizione, per una direzione che fu machismo urbano, catastrofismo, ellisse strumentalizzata filo-storica; ora verso un’eco che sposa invece di contrapporvisi, la sensibilità di cui è portatrice, dapprima sana, nel momento in cui gli eventi scritti e disinteressatamente descritti erano un carico a volte troppo pesante, ora minuziosamente, fatalmente contaminata, compiuta e completata, rinascente, espressa nella sua purezza.
La mira è sul gioco, che fu pezzetto di plastica e cartone animato, proprio dell’idea generale di qualsiasi mecha, vizio-svago da maschietto che poteva immaginarsele o prendersele redatte dai limiti tecnici, in ogni caso incomplete di quell’oggettività che qui è incarnata in un cinemascope che si (per)forma a servizio reciproco di quel cavallo instabile tra infanzia e adolescenza, di timore fascinato e inconsapevolmente irrequieto che cerca di presagire il proprio sviluppo, invettivo verso protesi che aspirano all’ipertrofia, al sovraccarico, all’unificazione del proprio corpo e dei propri ancora incantati pensieri con tutto ciò che è esterno, con l’inanimato che prende vita (o più che altro lo spera), alla ricerca di un indirizzo sconosciuto.
Il Cinema di Bay è sempre stato questo: Opera della preadolescenza (che è stata di tutti, che è di tutti), di umori lungimiranti ma ancora candidamente ignoranti, pieni di stupore, di gioia sormontante l’ostacolo, che fa sì che il tutto possa spingersi verso la più luminosa visione semplicistica, certo, di tutto ciò che è avvenimento eroico, ma proprio per questo più prossimo agli archetipi che probabilmente proprio in ciò che Bay forma trovano una delle loro origini, senza alcun inquinamento dove ciò che è concetto è anche storia, idee e immagini sono sostituibili nel discorso e la trama (s)fugge in onore del pindarico bayano, quello dei colori accesi come se tutto fosse sempre illuminato dal sole (buio e universo compresi) e delle sue inquadrature che sono sempre un’anafora dell’altrove rispetto al film, un coinvolgimento richiesto al pubblico che non può fare a meno che attingere nel proprio pop(olare) che scorre in maniera coadiuvante, ma che anche può lasciare il posto a un vuoto, a una sospensione, a una sensazione non ancora razionalizzata che proprio in questa sua approssimazione istintiva trova la propria congruenza forte d’assurdo.
L’astrazione infante che osserva, capisce, ama e si domanda il perché, povero di nozioni e in questo protratto verso un’ipertrofia principalmente visiva, che giunge tendenzialmente a un nocciolo di puri concetti che riescono a tralasciare gran parte della consapevolezza dell’arduo che diventa quasi inutile, sbandierando la vittoria, la vittoria dell’idea che depurata giunge: il duello, il sacrificio, la perdizione, la combattività, la tenacia; ossia tutti i connotati propri dell’Eroe per come mostrati nei suoi precedenti film, dove il colore e quello tranquillamente definibile come “casino” prevalevano e ne erano appeal essenziale (per tutte le vie del termine), in Transformers raggiungono un grado superiore, il momento in cui un regista, un autore riesce a fare un film fatto del proprio Cinema; un’iperbole sull’iperbole, dell’ironia, della mastoplasticità visiva, del “Bene Vs Male with Annessi”, dell’autopermissività indispensabile nella visione, che è propriamente ciò: occhio universale che gode di crome, effetti (lo si dice ed è vero: la migliore CGI di sempre), volti (LaBeouf e Turturro regnanti, con il secondo che ha capito tutto del da farsi) e tumulti; nel mentre in cui l’orecchio si sollazza senza problemi e la mente giace con la propria calma, o tenta di farlo.
Il Capo-Lavoro di un autore che è blockbusterizzazione perfetta che è incanto che è impeto, godimento da Cinema.

(26/07/07)

HOME PAGE