Una stagione dispersa (in sala) pt1: agosto-ottobre 2014
Il nostro è un discorso lasciato a metà, per pura (e mera) negligenza. Di visioni sparse e perse, assatanate di download Verboten, predette, ritardatarie, anticipatorie; festivaliere e casalinghe. Di firme migrate verso altri lidi (meno sciatti, meno angosciati – ango-sciatti?) risolutori di compensi e privi di frustrazione da desolazione. Un sito morto.
Come se con una pillola si potessero risolvere i problemi, ecco l’affilottamento stagionale senza premura, senza ordine al di fuori di quello cronologico o cardine, di titoli distribuiti, del quale terremo almeno qui l’appunto essenziale. Come un requiem, per non molti morti, qualche lampo dalle infinite liste, il ricordo di un innamoramento. Anche se chissà quanti altri sono andati perduti, è qualcosa.
Agosto 2014
Under the skin di Jonathan Glazer: levigatura videoartistica, esilità spavalda fatta di silenzi, candid camera, in cui tutto è all’osso tranne il corpo di Scarlett Johansson. Un omaggio, un disagio: un richiamo Anni Settanta, un brusio di fondo riconducibile alla descrizione dello stesso. Senza trama e senza verbo, anche l’ego del regista può sembrare o tremendamente ingombrante o del tutto immolato alla causa visiva. Un aplomb o forse un pudore: in ogni caso l’approccio visual che rovinava Birth qui riesce a farsi Cinema. Anzi, un Cinema minuto, breve, ben delimitato: complessità compressa in semplicità. Dicibile: esilità. Coaguli monocromatici e lande scozzesi possono bastare, possono occupare tutto il cuore.
La recensione di Luca Ticconi.
Liberaci dal male di Scott Derrickson: stavamo ancora passando lo scottex sulla bava e su tutti gli altri fluidi rilasciati dopo la visione di Sinister, per poi trovarci in aridità quasi completa. Liberaci dal male non mette in discussione le capacità di S.D. ma le riconduce momentaneamente ad un canone inferiore. Riusciamo a tenercelo stretto fino alla fine, ma niente che ci consumi, niente che ci impicchi ad un albero.
Mud di Jeff Nichols: fagocitato da tempi meno sospetti, Jeff Nichols turba le notti e i giorni del nostro compianto Luca Lombardini, qui la sua recensione.
Settembre 2014
Si alza il vento di Hayao Miyazaki: risale a Venezia 2013 la nostra visione. Rischiammo il linciaggio. Non per fare i bastian contrari, ma ci appare letargico l’approccio romanzesco di H.M. Non cadiamo ai piedi del tratto, non riusciamo a collegare gli elettrodi dei suoi capolavori meno vicini nel tempo a questa narrazione. La recensione di Fiaba Di Martino.
Anime Nere di Francesco Munzi: non basterebbero tutti i premi di maggior caratura e di diffusione spenta via etere a far muovere l’opinione sul film di F.M. (e ci mancherebbe altro). Come si usa ed osa dire: Anime Nere ha i tutti i crismi del genere. Ma dal genere si fa sopraffare. Il risultato e oleoso e stantio quanto un fabbricato rattoppato da lamiere e plastica, con dentro una pompa d’acqua e con accanto un’automobile ormai fuori norma. La sottolineatura (o)scura, e a tratti macabra, della provincia è nociva, spesso rispetto ad ogni intenzione. Una visione chiusa, limitata: sì decisa, ma senza riguardo per ciò che la circonda. Porre una cancellatura lercia sopra qualsiasi speranza è gioco usuale (sempre a Venezia: Perez.), ma asfittico perché non riesce a vedere oltre. E ciò appare come altezzoso.
Lucy di Luc Besson: ancora il corpo di Scarlett Johansson. Ancora Luc Besson, che ormai dirige e produce alla cieca e sembra sempre più un bambino che passa il tempo a rifarsi in testa le cose ha visto, parlando da solo. Infatuazione grezza, anche qui esilità (con Scarlett Johansson eroina-paladina della micro fantascienza citazionista). Ipercinetico viaggio (ottanta minuti) verso il limite fisico, alta velocità che se ne infischia non della verosimiglianza, ma della somiglianza. Besson riprende (filma, ricalca) senza aggiungere. Scarica le responsabilità e afferra con la sua solita noncuranza tutto ciò che sta dietro il topico dell’espressione del potenziale. Quasi cosciente dell’annacquamento filosofico che ne deriverebbe se una parola di troppo fosse stata pronunciata, lascia che il gioco rimanga gioco.
La recensione di Arianna Mereu.
Pasolini di Abel Ferrara: la recensione senza pietà di Laura Delle Vedove, a cui non c’è niente da apporre.
Ottobre 2014
Sin City – Una donna per cui uccidere di Robert Rodriguez: potrebbe valere in modo ancor più ampio quanto detto su Besson. Rodriguez è un macellaio, un bambino con le mani lerce di vernice rossa, infatuato tanto della tecnologia che del passato. Come un bambino grasso in overdose da caramelle, ripete il suo gioco nettamente solitario, va alla rinfusa, non fa entrare nessuno. Della qualità, della consapevolezza del passo vanti o di quello indietro non gliene importa niente, sia che si tratti di una raffica di Spy Kids che di un sequel a quasi dieci anni di distanza. Un paio di Machete (orribile il primo, rinfrescante il secondo – o viceversa del tutto; ma, appunto, che importa) non servono a niente: back to 2005. Inutilmente. La fascinazione possibile è andata a farsi benedire da qualche prete senza nemmeno il fucile. Una donna per cui uccidere è la versione ampliata delle stanchezze del primo film. I filoni di Rodriguez sono sempre identici a loro stessi ed insieme senza identità, in deficit per l’atemporalità intrinseca (anche quando non vogliono appaiono datati). Una dimensione privata che ribolle di voglia ma al contempo di ripetizione quasi ammorbante, litanie di un eremita Bis.
La recensione di Giampiero Raganelli.
Il giovane favoloso di Mario Martone: visto a Venezia 2014, « Attraverso pennellate bucoliche di dolcezza e leggiadria, Mario Martone si improvvisa voyeur nobile e premuroso che osserva, incantato, la storia romantica di un homo novus, presentandoci il pessimismo leopardiano come lo specchio della sua vita, come l’amara accettazione della propria condizione esistenziale e come l’assoluta certezza dell’inesorabilità del suo destino». Dalla recensione di Martina Calcabrini.
Guardiani della Galassia di James Gunn: in mezzo al mellifluo e al farlocco della mega-strato-maxi-multi-molti-saga Marvel, confondere l’ordinario con lo straordinario. Il primo motivo del luccichio di Guardiani della galassia è quanto: fare quel che gli altri non fanno, e nel momento in cui le pretese sono ai minimi e la memoria (di un Cinema dei superoi americani che non è quasi mai esistito, comunque) s’accorcia ad ogni film. Due ore di ritmo, due ore di Cinema e non di raccordi su raccordi. Come se fosse (e forse è), viabilisticamente: se gli altri film Marvel vanno solo per tangenziali anonime che sfiorano con lo sguardo e la possibilità luoghi autentici, Gunn scorre tra i palazzi, o almeno tra le fabbriche, per strade possibili e vivibili, senza la necessità di sfrecciare, senza il compito di essere solamente un ponte o un cavalcavia. Non vediamo svincoli, non vediamo accenni e riassunti e totali equilibrati e light: passiamo in mezzo alle cose. Ai personaggi, ai colori, agli spazi, alle dinamiche. La Marvel fallisce nell’ucronia, recupera terreno sul terreno della fantascienza per il solo fatto di passare in mezzo alle cose. Checosacièsuccesso.