VANILLA SKY

REGIA: Cameron Crowe
CAST: Tom Cruise, Penelope Cruz, Cameron Diaz
SCENEGGIATURA: Cameron Crowe
ANNO: 2001


A cura di Sandro Lozzi

ALLA RICERCA DELL’AMORE

John Coltrane che suona My favorite things in un appartamento di New York del Ventunesimo secolo. Un qualcosa che non potrebbe essere vero, e in effetti non lo è, ma lo diventa perché - non ce lo dobbiamo dimenticare - dietro lo schermo non c'è la realtà, non c'è l'oggettività, c'è solo un modo di vedere le cose. Ecco uno dei tantissimi esempi di immagini che sintetizzano perfettamente i diversi significati della pellicola messa perfettamente in scena da un ispiratissimo Cameron Crowe, una delle pellicole più ricche e meglio riuscite degli ultimi (e non pochi) anni.
Vanilla sky è un film in cui non solo non c'è nulla di sbagliato, ma anzi ogni inquadratura, ogni movimento della macchina da presa, ogni dettaglio, ogni particolare è al tempo stesso un tassello indispensabile, un contenitore di sensi e di emozioni, e un indizio. Vanilla sky è un castello di carte che non crollerà mai, una costruzione solida e perfetta nonostante il terreno pericolante costituito da un intreccio particolarmente fitto che può piegare l'attenzione dello spettatore allo scioglimento della trama, alla ricerca del McGuffin. Vanilla sky è un mondo onirico, frastornante e tremendamente efficace nell'opera di disorientamento, in cui il gioco di citazioni costituisce l'unico ancoraggio alla realtà; un mondo in cui si celebra ciò che fa di noi quello che siamo; un mondo della psiche, in cui tutto è carico di significati.
Fantastica la drammaticità del fulminante incipit, in cui Crowe anticipa già tutto il senso e tutti i sensi del film infarcendo di dettagli ogni angolo del campo ripreso. Così la citazione di Sabrina di Billy Wilder, nel televisore ai piedi del letto, rappresenta il sogno e il desiderio di vivere una storia d'amore romantica e passionale; l'eliminazione del capello bianco nasconde il richiamo alla volontà di vivere in eterno, che sarà presupposto fondamentale dei servizi progettati e offerti dalla Life Extension; la sequenza nella Manhattan deserta, immediatamente successiva, esprime in maniera indimenticabile la solitudine, e la paura per la solitudine (non a caso, lo scopriremo subito dopo, è la sequenza di un incubo), che porteranno il protagonista, David Aames, alla scelta di affidarsi proprio ai servizi della LE (scelta confermata dalla riproposizione, questa volta nella dimensione "reale", della scena del capello bianco). La macchina da presa evidenzia il disorientamento di Cruise girandogli intorno senza trovare nessun altro, lo schiaccia nella desolazione di una Times Square assurdamente deserta levandosi in cielo (da cui ridiscenderà all'inizio della fase del Sogno Lucido, abbandonando il cielo diventato color vaniglia per raccogliere David steso sul marciapiede), e infine lo accompagna nella sua corsa verso il nulla, attraverso una serie di rapide carrellate che non mostrano alcuna meta, fino all'urlo liberatorio, un urlo che si diffonde nel fuoricampo dell'incubo finendo in campo al momento del risveglio, raccordo sfumato tra sogno e realtà quasi a nasconderne il confine, ennesimo indizio di quanto accadrà per tutto il film.
E di questo passo si prosegue attraverso una serie di sequenze orchestrate con altrettanta meticolosità e capacità di costruzione; attraverso un utilizzo dei tagli di ripresa e degli stacchi di montaggio (fermi-immagine ispirati direttamente a Jules e Jim e jump cut di derivazione godardiana) che gestisce tempi e spazi con una precisione e un'armoniosità tali da rendere ogni quadro denso di significazioni e di richiami; attraverso un sistema perfettamente equilibrato e sensato di primi piani e giochi di sguardi (fantastico quello sulla Diaz mentre la Cruz in fuoricampo la descrive come "la donna più triste che abbia mai tenuto in mano un Martini"), sempre efficace nel restituire le emozioni e le sensazioni che Crowe voleva comunicare, mai abusato ma dettagliatamente progettato e dosato; attraverso flashback e riproposizioni distorte di immagini già viste, in modo da mettere e tenere continuamente in discussione quanto si crede di sapere sui personaggi e sulla loro storia, e soprattutto quanto i personaggi credono di conoscersi e di saper distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è.
Così all'inizio della sequenza della festa a casa di David c'è un'immagine bellissima in cui il protagonista sta parlando con un'"amica", la presenta ad un'altra ragazza (che, come la prima, ha avuto in passato una relazione con David) per scrollarsele entrambe di dosso e proseguire da solo verso gli altri invitati; la camera però non segue Cruise, ma resta in piano medio sui volti delle due ragazze, pieni di tristezza, quella tristezza che David continua a lasciarsi alle spalle da ormai tutta una vita.
Ottima la recitazione di Cruise, che si affida ai modelli e agli stereotipi dei divi del cinema classico per giocare sulla sua stessa immagine, l'immagine del divo moderno che è anche e soprattutto maschio americano, il divo spaccacuori che però in seguito ad una fatalità perderà il suo fascino, costringendo lo spettatore a chiedersi come se la caverà senza di esso.
La macchina da presa segue sempre quello che nel film si dice, ma ancora di più quello che si sente, quello che si prova. Così Crowe ricorre alla macchina a spalla quando c'è da creare movimento; carrelli, panoramiche, dolly e gru seguono passo passo il wilderiano turbinio di dolce e amaro, lo humour nero e il dramma dei corpi e dei sentimenti; a volte rifacendosi al linguaggio classico di Hawks e Wilder, altre seguendo la lezione sul plan di Renoir e Welles e quelle sul linguaggio dei giovani turchi (in particolare Truffaut, continuamente omaggiato), ma elaborando il tutto in un lavoro assolutamente personale, la regia di Crowe segue la storia di un uomo che fa l'unica vera scoperta che avrebbe potuto cambiarlo: l'amore.
E le risposte arriveranno nella scena nell'ascensore, ancora ispirata dal critico-autore de I 400 colpi, secondo cui i flashback sono più funzionali se inseriti quando i protagonisti si trovano in un comparto di movimento (come il vagone del treno de L'amore fugge). E la scena dell'ascensore è preceduta da un ulteriore capolavoro di montaggio, con tutta una serie di stacchi rapidissimi che iniziano a costruire la tensione (controbilanciata attraverso l'utilizzo di Good vibrations dei Beach Boys, uno degli innumerevoli esempi di come anche le straordinarie musiche - dai Radiohead ai REM, da Bob Dylan a Jeff Buckley - abbiano rilevanza e siano ben sfruttate nel contesto di messa in scena) e che culminano nel liberatorio movimento centrifugo della macchina da presa che gira intorno a Tom Cruise fino ad includere nel campo l'apertura dello stesso ascensore, ascensore che è l'obiettivo finale delle fughe di David Aames, risposta a tutti gli interrogativi, dei personaggi del film come degli spettatori.

Una galleria di trovate registiche che ai giorni nostri non può che stupire, una mosca bianca in una cinematografia, quella hollywoodiana postmoderna, che si accartoccia sempre di più su sé stessa, riproponendo sempre lo stesso piatto in tutte le salse. Passando per Wilder, Hawks, Mulligan, Truffaut, Godard e quant'altri, la pellicola si snoda come un percorso di formidabile coerenza e sintomo di un'autorialità troppo spesso negata a Crowe per la presunta leggerezza dei temi trattati.

(13/11/05)

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