VELVET GOLDMINE

REGIA: Todd Haynes
CAST: Jonathan Rhys Meyers, Ewan McGregor, Christian Bale
SCENEGGIATURA: Todd Haynes
ANNO: 1998


A cura di Pierre Hombrebueno

RIGOROSAMENTE E UNICAMENTE PER ROCKSTAR(S)

“Anche se questa storia è inventata, dovrebbe essere proiettata al massimo del volume”. Uno slogan preso direttamente da The rise and fall of Ziggy Stardust, storico album di David Bowie che rappresenta l’apice del glam rock inglese anni 70’, i glitters gay scoppiettanti, quando giocare con la propria sessualità era fottutamente di moda, dove se non avevi lo smalto nero sulle unghie, eri cazzutamente out. A morte l’ipocrisia dei figli dei fiori, s’apre e si chiude un’epoca (durato ufficialmente circa 4 anni, ma con ri-eccheggi fortissimi anche oggi) tra palchi infuocati, orge, ballate bisessuali: il freak è il must del momento, l’esagerazione pura, amplificazione del kitsch più assoluto e fuorviante.
Todd Haynes ci riporta in quegl’anni con sguardo nostalgico in una sorta di viaggio misto di sogno e fiaba, a cominciare da quell’incipit che sembrerebbe uscito direttamente dai Fratelli Grimm, con tanto di sfondi di cartone rigorosamente dipinti. Perché il rock è necessariamente immaginario, la rockstar assimila un alter-personaggio, che sia un alieno venuto dallo spazio o un ratto auto-distruttivo che nuota tra le fiamme e l’eroina, perché come dice Mandy Slade: “erano tutte invenzioni”. Certo che Velvet Goldmine è pura invenzione, pura fantasia immaginaria, nonostante la delineazioni dei suoi personaggi appartengano proprio alla storia del rock n’ roll: Brian Slade non è che l’alter-ego di David Bowie, e Maxwell Demon il suo Ziggy Stardust, pagliaccio esibito e poi represso dal suicidio scenico. Curt Wilde è un misto tra Kurt Cobain e Iggy Pop, con quella matita sbavata fino alle guancie. Di più: diverse canzoni della pellicola sono cantate direttamente da Dio Thom Yorke (vocalist dei Radiohead) o da Dio Brian Molko (vocalist dei Placebo, che nel film fa anche un cameo in carne ed ossa).
Infine, Arthur, il giornalista (ex)fan, siamo tutti noi, figli della rivoluzione in fila per i gigs dei nostri beneamati. E Haynes sceglie proprio la soggettiva ad indagine di Arthur per trasportarci nel mondo di Velvet Goldmine, in modo da assimilare la visione dello spettatore malinconico/nostalgico, trasportandoci in un’ alterazione metempsicotica per incarnare il fanatismo perduto della nostra gioventù, gl’anni d’oro dell’adolescenza, della propria scoperta sessuale, trasgressiva, a suon di chitarre elettriche e masturbazione con pasticche.
Sia chiaro, non tutti saranno in grado di capire/apprezzare/addentrarsi/sviscerare Velvet Goldmine, in quanto è opera così intima(intimistica), uni-direzionale (nonostante la grande polivalenza delle sue significazioni più simboliche), e se siete dell’altra fazione, gli stessi che sfottevamo, a cui tiravamo le bottiglie addosso, marcati di buonismo e pulito fino all’ultimo capello, allora irrimediabilmente sarete tagliati fuori dall’universo che il film crea. Più che un omaggio al glam rock, l’opera di Haynes è invece una dedica al fan rockettaro, all’ex freak, a cui una volta tanto, tramite la figura di Arthur, viene concesso l’opportunità d’interagire con i propri idoli, di immischiarsi con voyeurismo nel sex drugs n’ rock n’ roll, il tutto fatto in modo così onirico da confondere totalmente le proprie percezioni e sensazioni, come un soffio di vento così fottutamente freddo da congelarci momentaneamente e farci mettere piede in un altro spazio e in un altro tempo, tra gl’abiti scintillanti e i lustrini. Un dono che ci viene passato tramite la spilla verde di Oscar Wilde, passato per caso tra le mani di Jack Fairy, rubato da Brian Slade, regalato a Curt Wilde, e infne dato ad Arthur, cioè a noi. Noi siamo dentro il film. Siamo stelle della costellazione che si crea e che si frantuma nell’omaggio.
Per questo Velvet Goldmine ha un qualcosa di magico, puro nella sua multi-contaminazione di flash e colori, di kitsch: non è un’opera esteticamente perfetta o plastica, bensì barocca, confusa, immatura, fatta di aggressioni diegetiche non sempre funzionali; ma nello stesso tempo è così innocente (nella sua perversione), così meravigliosamente spontanea, perfetta nella sua imperfezione come un album di debutto incazzato, rozzo, ma proprio per questo così potente e coinvolgente. Possiamo definirlo un semplice trip in acido, dove ogni spettatore con un filo di sangue rock si (ri)trova necessariamente a dover scavare nella memoria, a chiedersi se ciò che lui ha vissuto è reale od ormai pura immaginazione soffusa dai ricordi, così viva ma anche così imprendibile, sfuggente. Un periodo, la giovinezza, il rock, che proprio come il personaggio Maxwell Demon, è destinato ad avvolgere e infuocare, prima di perdersi nei meandri del nulla, delle fotografie e dello specchio ormai consumato dal tempo.
Magnifica pioggia di piume, brillantini sparsi nell’universo popolato da esseri strani, androidi dal cuore tenero, ragazzi del ventesimo secolo che sputano e calciano sul palco col loro boa di piume nere. C’è la confusione del dove sta andando il mondo e la propria vita, se verso l’annientamento o la gloria, eppure non c’è tempo per spararsi le pippe mentali, perché si preferisce ballare o mettersi il rossetto davanti ad una vetrina.
Già, Just nineteen a dream obscene, six months off for bad behaviour. Odissea nello spazio che riporta il genere Musical fuori dalla propria teatralità per trasformarlo in un’epopea dell’immaginario visto e udito, dose massiccia di luci abbaglianti e penetranti, sovrimpressioni vigoiane di noi che nuotiamo tra/oltre/dentro quelle immagini per ri-acchiappare il sogno, l’amore, una parte di noi stessi.
E magari oggi possiamo pure andare in ufficio conciato in giacca/cravatta e fare il moralista coi nostri figli cresciuti a suon di grunge e anticristi superstar, ma il film di Haynes ci ricorda ciò che siamo stati e che purtroppo non possiamo più permetterci di essere: delle persone libere. Libere di fare sesso nel tetto di un palazzo sotto la neve. Libere di pisciare nel giardino con una bottiglia di buon vino in mano. Libere di farci le pasticche ed esprimere desideri quando passa una stella cadente. Libere di sognare, appunto. Non solo: in tutto ciò, eravamo anche cazzutamente cool.

(05/11/06)

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