VENEZIA 2011 – Giorno 1: amore, lividi e teste mozzate
There is no Clooney, almeno per il momento. Eravamo impegnati altrove a vomitare davanti a The detective 2 di Oxide Pang. Solo a quel punto siamo partiti.
Il Lido è immutato, nonostante continui a sembrare un mutante tellurico, un formicaio, l’isolotto. L’eccellenza assente ci porta ammassi di appena-non-più-teenager armati di macchine fotografiche digitali e di accrediti verdi che non sanno che saranno solo la via d’accesso per l’inferno, per le code inutili, per il sentirsi disabili e per le “poltrone” (aka sedie da sala d’aspetto) del Palabiennale. Le file per noi sono ridiventate (l’anno scorso erano addirittura assenti) una scommessa (molto facile, ma non sempre) a causa del riaccoparmento di certe proiezioni fino all’anno scorso separate.
Non c’è tempo per mangiare, per scrivere email d’amore, o per fare del birdwatching. Al massimo, per bere una birra.
E amori e lividi, Love and bruises, entrambi necessari, a vicenda il sapore, la sostanza dell’altro. Amore tra poveri è guerra tra poveri, esagerando e finendo ripetitivi. Un Ultimo tango a Parigi che decolla già sciancato (vittima di quel vittimismo di camera a mano troppo shakerata alla ricerca di facile crudezza e negata crudeltà) e diventa un repeat tedioso di grandi scopate completamente svuotate di senso (narrativo, visivo: cinematografico). Il titolo originale doveva essere Bitch, ed in effetti una che scopa e le prende in due continenti, e non da un solo uomo, c’è, ma Lou Ye non riesce dare forza a nessuno dei due titoli possibili, senza mai riuscire ad impregnare di qualcosa che non sia un’involuzione al realismo malposto tutto ciò che prende in mano: povertà, disgrazie, casi umani, sociali, sesso, presunto amore, presunti sentimenti tout court o, più semplicemente, i corpi e l’amore (l’invisibile), i corpi e i lividi (il visibile). In Giornate degli autori – eventi.
Ma l’opera che ci ha accolto, che ci aperto gli occhi e non solo, che c’ha lasciato la vaga impressione di star ricevento un troppo subito è statoCrazy Horse di Frederick Wiseman: un inno al culo (ma per niente brassiano), al balletto, al burlesque e alle sue ballerine. Due ore di colori, colori, colori elettrici (e limpidi, anche grazie alla proiezione digitale) solidi, pastosi, tondeggianti. ok, si trattava di un documentario, quindi lontano dall’incanto, ma pieno della forza fotografica da catalogo patinato ed esaltante, quasi fosse videoarte una volta tanto fatta bene, ma anche propaggine cinematografica accettabile nell’amore per la coreografia, per l’estetica metaomaggiante. In Giornate degli autori.
Il miglior film della giornata, nella magrezza generale. Nessuno a casa propria riuscirebbe ad ottenere il sapore di un Crispy McBacon, ma nemmeno di un kebab. Il codice dei kolossal/epici/storici/polpette-straunte è in mano (o meglio: in culo) a Hollywood, e qualsiasi tentativo di emulazione è un imbastardimento, sia del genere stesso, sia del potenziale creativo di chi lo realizza. E tutti così continuano, per qualche malformazione (non congenita) al gusto commerciale. Saideke Balai (Warriors of the rainbow: Seediq Bale) di Wei Te-Sheng è, aldilà della generica inutilità, fatto di caratteristiche ben distinte e valutabili, non avendo un’identità o un’intenzione diversa da quella denotativa, che corrono parallele per centocinquanta minuti, fatti di monotonia: teste mozzate dall’inizio alla fine, effetti speciali quasi commoventi per i loro limiti (vantando, tra le varie, una caccia al cinghiale in cgi), pochi dialoghi ma anche poca retorica, una totale assenza di moralismi (e una vaga aura di Apocalypto, l’opera più fotocopiata e ricolorata) e la capacità di non avere tempi morti, anche se mai del tutto vivi. The question: cosa cazzo ci fa in concorso?
In Aronofsky we trust.