VENEZIA 2011 – Giorno 4: tele(foto)grammi
Quasi non riusciamo a scrivere, ora che siamo stati shakerati e ogni tradimento è stato perdonato: rimbalzati dal gelo del bianco e nero di un rotoscopio ceco alla boria di Al Pacino, dalla neghittosità registica di Alpis allo schiaffo sbiadito queer di James Franco, dagli fallimenti umani (e d’esistenza tutta) di Hail all’esaltazione nera a sghignazzante di Poulet aux prunes, dal viadotto per il surrealismo di cose dell’altro mondo per poi ritornare alla patina televisiv-70s di Sal.
Tra le altre cose, è domenica, e si sente – si sente in qualsiasi parte del mondo, fino a quando non si entra in sala. E gli spritz sono annacquati. Rimpiangere di essere riusciti ad entrare alla proiezione del documentario di Al Pacino, perdendo la possibilità di ripiegare suiManetti Bros. Accorgersi che sui film non c’è niente da dire, che i film causano mutismo quando ti entrano sotto la pelle. Il caffè costa troppo, ma non possiamo farne a meno. Che i film sono tutti vicendevolmente sosia, che questo posto è un alveare, e non ha nessuno scopo. Che vedere di tutto in solo giorno è sempre stupefacente. Che a tratti sembra l’edizione più compatta degli ultimi anni, senza apici, senza fossi.
C’è da fare la fila, e non c’è nemmeno la voglia di scrivere i seguenti telegrammi. Aperti/chiusi con due forse-capolavori.
Sal di James Franco (Orizzonti). Dell’inspiegabile giace sempre nel vuoto/pieto di certi pianosequenza statici e spogli. di questo è fatto Sal, con quella nebbia tecnologica pervasiva (da vecchio nastro televisivo), dalla non esaltazione degli spazi perfettamente identificati col decennio, con il raccontare una morte annunciata, con l’essere in assoluta pace/sintonia con quello che si pensa di quel che si vuole raccontare. Forse un capolavoro.
Alpis (Alps) di Yorgos Lanthimos (Venezia68). Gioco di sottrazione e sostituzione, la prima delle emozioni, la seconda del lutto che diventa pezzo di finzione (nella finzione), volutamente mandata al midollo della sua esasperazione, ossia all’essere onnipresente ma mai sottolineata. Forse vincitore (di qualcosa).
Hail di Amiel Courtin-Wilson (Orizzonti). Vecchi dalla faccia spaccata, dalla vita rotta, dalla fotografia granulosa. Esordio indie-snob completo, puzzolente di cinema con la tosse dentro e fuori, ruvido come cemento steso male, onirico anche quando in uno stanzino. Forse Amiel Courtin-Wilson tornerà, bigger and larger.
Poulet aux prunes di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud (Venezia68). Tutt’altro che il costante tempo-quasi-morto di Persepolis. Quasi da pronunciare la parola Amélie, anche sapendo che qualsiasi paragone sarebbe sia banale sia impossibile. Estetica di spazi disegnati, di gag a schioccar di dita, di fumettosità ineluttabile. Nell’esser dark ma per nulla sporchi. Forse vincerà troppo.
Cose dell’altro mondo di Francesco Patierno (Controcampo Italiano). Assoluta mancanza di vitalità, come già per Il mattino ha l’oro in bocca. Ma il surrealismo non cede alla maniera, alla morale, a qualche dovere produttivo: tutti pezzi di merda dall’inizio alla fine, e non c’è salvezza alcuna. Forse qualcuno gli darà veramente retta.
Wilde Salome di Al Pacino (Fuori Concorso). Se non fosse un “lavoro” di Pacino, sarebbe già stato bollato per quello che è: una cagata. Ah, giusto: è una cagata. Motivo: la reiterata obsession che dovrebbe esserci, in realtà non c’è, tantomeno lo stile, ma anche solo l’idea. Forse qualcuno glielo dirà.
Alois Nebel di Tomas Lunak (Fuori Concorso). Meglio di qualsiasi lavoro d’animazione fatto da Richard Linklater, preso da una costola di Sin City, sensato risultato di una tradizione (dell’animazione d’Est Europa) che non sta (mai) ferma. Gelo bianco, gelo nero, compattezza d’inverno ceco, con la Storia che fa da fondamenta senza osteggiare la purezza del dipinto digitale, della malinconia che colora di ogni cosa di Nulla. Forse un capolavoro (e due).
In Aronofsky we trust.