VENEZIA 2011 – Giorno 5: Shame vs. The Invader & altre umiliazioni
Dejavù, la continuità inequivocabile ed inaspettata tra due opere, una in concorso e una in Orizzonti, che nell’epidermide delle loro immagini perfezioniste ed affatto empatiche si ritrovano a tessere ragnatele d’arte contemporanea infettante il Cinema (ma già tutto da qui parte), a favore della narrazione del distacco, che non è quella della giusta distanza né quella dell’eccessiva, ma dell’annullamento del punto di vista.Shame di Steve McQueen, The Invader di Nicolas Provost: dove l’estetica della coniugazione attore-ambiente si mette a sovrastare la connessione morale o narrativa della plasticità connotativa in nome di un globale fluire unico e calligrafico. Calligrafico in nome non di un’inclinazione autoriale ben definita (presente in parte in Shame, praticamente nulla in The Invader) ma, in un senso o nonsenso – perché anestetizzato dalla sua mancante perfettibilità, autodeterminata non-necessità; così come l’acqua non necessità colore, la loro temporanea contemporaneità esclude ogni sentimento. Il protagonista è esso stesso addobbo (necessario), con la nudità di Michael Fassbender o del protagonista di The Invader: essi stessi oggetti di scena, a suo modo cosmica, netta e piatta, linee di luce.
E, in un’ipotetica scala di valori, forse un punto avanti (o almeno una possibilità ben sfruttata) nelle immagini tendenti alla pura tecnica autosufficiente (quasi per frammenti accorpabili a proprio piacimento), non drammatica. Il virtuosismo per il virtuosismo, la fotografia animata per la fotografia animata.
Amplessi clandestini e a sei zeri ripresi nei medesimi luoghi e pose (lui da dietro, mentre lei si tiene con le mani alla parete-finestra che dà sulla città dentro cui sono, ma inesistente o lontana): da questa identicità partono affinità e differenze.
McQueen è più sporco e morboso, e la sua presa visiva da cartellonistica pubblicitaria snob/chic è il risultato della mutazione metrosessuale (idealmente alla David Beckham) in cui città, situazioni e personaggi sono dentro un triangolo che è già ruotato fino a diventare cerchio: tutto è dato alla perversione sessuale (l’unica adatta) e insieme già oggetto di design, e quindi prossima immondizia. Il tentato suicidio di Carey Mulligan è idealizzato – il rosso sangue vs. il bianco della stanza da bagno – ma non tragico. Nulla viene fatto per farcela amare, insieme clichè e messa-a-terra dello stesso.
Non c’è più bisogno di personaggi, né di ambienti, ne atmosfere: i primi due hanno raggiunto il medesimo spessore (alla faccia del 3d), la terza è già autodeterminata.
Ma Provost va oltre, in questo processo. Il suo è un fotoromanzo amplificato e semplificato. Corpi statuari anche per gli ultimi clochard. E tutto inizia con una vagina in primo piano, alla Courbet, L’origine del mondo. E tutto finisce con un primo piano vuoto e sorridente, che riesce a svelare e disgelare quel puro occhio senza sguardo che è tutto il film. Una vicenda d’immigrazione che diventa romance morboso che diventa vengeance movie. Il protagonista si muove per i quartieri di Bruxelles (appetibile cartolina europea) come se fosse un film degli anni 70, ma senza la grana visiva e senza il sapore dell’esplorazione: si sa già in quali bassifondi s’immergerà, con quali faraonici edifici avrà a che fare. L’effetto sorpresa scaraventato e ridotto a una semistantanea elaborazione.
Due film-acquario, inodori, appiattiti, luccicanti sotto una teca di vetro o plexiglass nella messa a fuoco totale, come di un arcaismo messo a barocca messa a lucido.
Intanto Todd Solondz è vivo, più di Cronenberg o di Polanski. Provincia cronica sempre e comunque, il rimpasto audivisivo di tutta la sua opera precedente, partendo da quello che in Palindromi era un accento o in Happiness una parentesi. Ammorbidimento di stile e di forme, con Jordan Gelber versione inflaccidita del Giamatti di Storytelling; ma è il denudamento ridicolizzante che è rimasto il medesimo, la disumanità solondziana che riesce ad attraversare ogni inquadratura o battuta per rendere al film solamente il misero/colorato/kitsch spirito non-animalesco dei suoi falliti. Ed è proprio il fallimento a essere qui non raccontato, ma spruzzato come un disgustoso ipotetico deodorante delle ambientazioni stesse sopra ogni cosa: Il taglio anoressico delle inquadrature, la riduzione a mutismo dei personaggi (che anche quando parlano non dicono niente), il ridicolo rivoltato a tragico (o messo alla pari – causando traumi di reazione e sensazione nello spettatore) tenuti sotto coperchio dalle immagini per poi esplodere in un tenue, sussurrato, unico languore finale.
Ed un mezzo shock che diventa semplice fuga dalla realtà, Twilight portrait di Angelina Nikonova: stupro con sindrome di Stoccolma annessa, ed inquadratura, fugace ma regina, dello sperma che cola dopo la violenza. E’ uno dei tanti esordi (come quello di Andrea Segre,Io sono Li) girati con libera (e ormai completa di manuale di inquadrature mosse ma non troppo) macchina a mano, di fotografia bluastra e di palazzi e abitazioni ormai automatizzati sotto l’obiettivo, di dramma sottile facile/suggerito tanto quanto una domanda da 500 euro di chi vuole essere milionario, che per certi occhi allenati potrebbe essere definito un popcorn-drama. Monovisione, per la monomania cinefila.
In Aronofsky we trust.