VENEZIA 2012 – Weekend (non godardiano) – Anche un fiore, se inquadrato bene, diventa un’opera d’arte
P.T Anderson vs Malick. Malick vs P.T Anderson. Siamo giunti a metà festival e il dilemma è questo, l’inevitabile confronto tra i due nomi più attesi della mostra, (in)discussi maestri americani che hanno strappato ovazioni e applausi in sala come se non ci fosse un domani. Quale dei due sia riuscito a convincerci di più è difficile da dire, ma quel che è certo è che entrambi ci hanno lasciato più di una perplessità, un certo vuoto o svuotarsi, una mezza smorfia o delusione qualsivoglia, wearing a frown like pierrot the clown. Sia The master che To the wonder hanno infatti lo stesso difetto: stordiscono per la prima mezz’ora con un bombardamento d’immagini potentissime, da antologia e da morte (e resurrezione) come solo il cinema nella sua forma più sovversiva e magnifica riesce a fare, a dimostrare ancora una volta che “anche un fiore, se inquadrato bene, diventa un’opera d’arte” (egh); ma poi, esaurite le prime cartucce, ad evidenziarsi è una debolezza nella dimensione narrativa, nel puro gusto del racconto. Anderson tira avanti di ripetizioni sempre sul collasso del vuoto, affidandosi unicamente alla bravura e fotogenia dei suoi due attori Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman, mentre Malick fluttua costantemente di sogni e ricordi, con dialoghi insignificanti e voice off di perenne accompagnamento poetico. Freddamente parlando, le due opere arrivano a sembrare pallide imitazioni dei loro precedenti, The master come sbiadita copia de Il petroliere e To the wonder come indebolito specchio di Tree of life. Quasi film-scarti, il cui solo verdetto della giuria capitanata da Michael Mann deciderà il futuro veneziano.
Altrove (ma sempre qui), un plauso a E’ stato il figlio di Daniele Ciprì, il primo film italiano senza fischi di pubblico da molti anni or sono, e meritatamente, in quanto è solida opera che riesce a coniugare comicità e disagio sociale/umano/depressione con tocco blasè che raramente cade nel banale.
Totalmente da cancellare dal cervello è invece Fill the void di Rama Burshtein, che piacerebbe moltissimo solo alle vostre madri essendo praticamente una soap opera argentina su schermo: la piattezza degli intrecci e della messa in scena è la medesima.
Alla fine dei conti, ci troviamo davanti una mostra senza ancora probabili vincitori, o peggio ancora senza iniezione di trasfigurazione e dolore narcotica. Non stiamo tifando nessuno, ed è forse questo il segno dolente di una delusione che continua a delinearsi nei nostri volti di giorno in giorno. E come povere Rosselle O’ Hara (o Cesare Cremonini qualsivoglia), altro non possiamo fare se non sperare in un domani migliore, verso la seconda metà del festival che vedrà l’arrivo di Kitano, Assayas, Bellocchio, Kim Ki-duk, Mendoza e De Palma.
Cheers.