Venezia 2015: uppers (i migliori film in concorso e non)
Venezia fondata, infondata, affondata: cinema nuovo, cinema vecchio. Sentimenti passati in lavatrice. Siamo ridotti a stracci, grazie a questi film.
11 minut, regia di Jerzy Skolimowski (Polonia/Irlanda) – In concorso ♥♥♥♥
Veterano, nuovo. Skolimowski prende un concetto relativamente semplice e ne fa odissea condensata, cataclisma della normalità e dell’eccesso dello stocastico, del fato, dell’insignificanza, a misura d’uomo. Contenitore-game serrato, meccanico, digitale-digitalizzato-digitalizzante. Sotto al patina biancastra della scorza numerique afferra in un blitz il teatro della normalità, della scissione/unione degli avvenimenti e del loro sommarsi in evento sommo tanto quanto annullante. L’umanità è densa, l’umanità è insignificante. La luce, un pixel nero: una solitudine collettiva, un’impotenza regale e spettacolare. La sua forza non è rivoluzionaria ma cristallizzante, ermetica, precisa: tanto a basta a rendere lo schermo dirompente incanto luminoso.
L’inesorabile finitezza del cinema, la dissoluzione del suo essere come immagine dotata di senso (il cinema come quella ragazza di quel bagno pubblico?), il decadimento perpetrato dalla virtualità e dalle sue interconnessioni senza scampo senza pace senza respiro, è ormai virale e il mai così maiuscolo Skolimowski mette in scena l’autocombustione parcellizzandola attraverso segmenti distratti di esistenze opache e infine deflagrandola nell’apocalisse. Di cui non si accorge (mai) nessuno.
Non essere cattivo, regia di Claudio Caligari (Italia) – Fuori concorso ♥♥♥♥
Testamento, si parla di testamento. La – purtroppo – non folta filmografia di Claudio Caligari si chiude uno dei suoi film più esplicativi e coesi. L’ambientazione Anni Novanta e Luca Marinelli basterebbero a renderlo sintesi perfetta, al di là del suo autore. Ritroviamo quel che fu di Amore Tossico, scopriamo una diversa energia e ci agghiacciamo/macabramente-divertiamo da zero. Quello zero che è l’esistenza dei personaggi, il loro reagire all’inferno. Chiudendo con quel che il cinema italiano ha troppe volte tralasciato – e che non può recuperare, assoldato da una nuova estetica à la Sollima – Caligari ci mostra un cinema possibile, velenoso, stupefacente, crudo, grandioso.
Un Monstruo de mil Cabezas, regia di Rodrigo Plà (Messico) – Orizzonti ♥♥♥½
Breve, rapido, concreto, spietato. Meno di ottanta minuti per un semplice impulso di violenza vendicativo. C’è spazio per la critica sociale tanto quanto per la suspense, per le pistole quanto per la protagonista. Da ingollare senza pensarci né prima né dopo, Un Monstruo de mil Cabezas riesce prima di tutto a proporci interrogativi formali: lì dove le serie dilatano i tempi e il cinema si ritrova nel mezzo, qual è la strada da perseguire? Quella della concisione e della velocità o quella del fiume interminabile? Il genere-allegorico o il fiume dalle mille identità? La risposta forse non arriverà mai, o quando arriverà sarà già dinnanzi ad un assetto differente. Rimane che il grottesco è il genere sempre in grado di primeggiare.
Mate-Me por Favor, regia di Anita Rocha da Silveira (Brasile/Argentina) – Orizzonti ♥♥♥♥
“Il sangue è vita”. E la giovinezza è un concentrato di emoglobina putrida, di pulsione sessuale insanguinata dalla voracità, di istinto di morte sanguigno. L’adolescenza vissuta per contrappasso, come condanna a una solitudine inconsapevole, a balletti frigidi, a pianti consumati chiuse dentro un cesso con un occhio nero, a celebrazioni mistificanti annegate nel kitsch più sconcertante, a girotondi viziosi sui social network, a dipendenze pigre in una casa vuota, ad assenze inesplicate che scavano a fondo l’alienazione crescente.
Mate-me por favor, passato nella sezione Orizzonti di Venezia 72, è l’esordio – fulminante, perturbante, inquieto – di Anita Rocha da Silveira, giovane autrice spagnola che se ne avrà l’occasione farà strada, e tanta. Una visione della pubertà sublimata, la sua, che esplode febbrile in qualche momento di follia e angoscia inespresse – il bacio all’assassinata, la lingua sulle labbra imbrattate di sangue, lo strangolamento fallito del ragazzo che ti scatena la libido -, che rende palese l’indissolubile intersezione tra amore e morte, patologicamente vissute dall’anemica e straniata Bia (Valentina Herszage). E nel contesto socio-politico in cui è ristretta la sua crescita, gli adulti sono spettri che vivono nelle mancanze emotive dei figli, l’amicizia è un’annoiata abitudine, l’istituzione religiosa è una barzelletta, il crimine e l’omicidio un morboso brivido di percezione che si (ri)sveglia. Anita Rocha da Silveira: giànocturniana doc, non perdiamola di vista.
The Childhood of a Leader, regia di Brady Corbet
(Gran Bretagna/Ungheria/Belgio/Francia) – Orizzonti ♥♥♥+
Uno dei pochi – forse l’unico – film presentato in pellicola. E da quello spioncino marcescente assistiamo, torturati, al lugubre gioco. Quello della sineddoche, della traslazione impietosa che rende un incubo/visione catalizzatrice di un rapporto con il male di tutt’altra densità. Corbet, attore prima che regista, firma un’opera spiazzante, pronta per il dibattito da manuale: una cripta di sensazioni destabilizzanti, tra crepuscolarità e rigore, trionfo musicale e disperazione.
Uno schiaffo, un braccio rotto, un urlo, un pianto a dirotto: ciascuno di questi atti violenti nell’infanzia del bambino maledetto (Omen – Il presagio è (una) realtà) arriva come una scossa tellurica e la ragione sta tutta nello sguardo mai prono, mai sopìto, mai immoto di Brady Corbet, che gira con furia gelida, con veemenza controllata, con malessere concentrato, partorendo con dolore una fiammata cruda ed espressionistica, un esordio come se ne sono visti pochi qui a bottega.
Mustang, regia di Deniz Gamze Ergüven (Francia/Germania/Turchia/Qatar) – Premio Lux ♥♥♥½
Una smania di fuga e di vita, bracieri insopprimibili nel petto e capelli lunghissimi, le sorelle di Mustang sono trepide Raperonzolo rinchiuse in una villa d’avorio e represse da un’istituzione prima di tutto familiare atta alla negazione e all’occultazione del loro esistere come donne e conseguentemente come individui. Opera prima pervasa da echi sciammiani (nel senso di Céline) e dardenniani (nel senso dei fratelli e del loro Rosetta), divorata dagli occhi neri come la pece e profondi come una tempesta della piccola Lale.