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Venezia 2016: Downers – I peggiori film in concorso

Le bad vibes incensate dalla competizione di una Venezia dimenticabile

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Piuma  di Roan Johnson (Italia) - ♥(♥)

Davanti all’embarcadero del Lido c’è una piazzetta con una fontanella, uno o due alberghi, l’ingresso posteriore della chiesa, un bar e una fermata del bus. Una volta quello che forse era/è il parroco di Santa Maria Elisabetta mi ha fatto notare che la ripavimentazione della piazza era stata portata a termine in fretta e furia e che per buona metà della superficie, le previste lastre erano state sostituite da una bella colata di cemento. Probabilmente è ancora così, e di certo una cosa simile deve essere accaduta con Piuma in Concorso, perché in un altro periodo storico un film di questo tipo sarebbe stato proiettato senza troppo baccano in qualche sottoscala da sette posti. Il film di Roan Johnson è una commedia, una commedia solare, più presa bene addirittura del suo film precedente (Fino a qui tutto bene, dove a un gruppo di coinquilini succedeva di ogni “ma alla fine who gives”). Stavolta si parla di gravidanze inattese tra adolescenti e di tutte le complicazioni, umoristiche e non, annesse, in cui però alla fine tutti se la ridono. Il problema non è tanto d’ottimismo con cui Johnson racconta (lo fa anche Cameron Crowe, per dire), quanto l’estenuante e quasi nevrotica ricerca di simpatia, simpatia che si traduce in battutine, gag ed enormi salti logici pronti per andare alla prossima scenetta senza preoccuparsi nemmeno un attimo, talvolta con un nonsense disarmante, in un’angelica noncuranza da risultare disturbante, come davanti ad un comico da ultimi posti di Eccezionale veramente. Vedere Piuma è come avere a che fare con certe persone sempre allegre: all’inizio può sembrare che ci sia sintonia, ma in pochissimo tempo scopri/capisci che quello/a è preso bene per i cazzi suoi e che tu – spettatore – non conti niente. (AT)

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Arrival  di Denis Villeneuve (Stati Uniti d’America) - ♥♥

Amato, talvolta osannato, Villeneuve porta la propria opera in concorso ed è subito rottura. Nel vederlo come ennesimo passo filmografico, gli adepti del canadese leggono in Arrival stratificazioni, evanescenze filosofiche-ociali-spaziali-olistiche, poetiche traslazioni. Una sorta di effetto-Nolan (ma con le dovute proporzioni, a sfavore – ovviamente – di quest’ultimo) per quello che in realtà è, per lo sguardo meno facile e di certo suo malgrado scettico, una riproposizione tremendamente statica di un’idea inappuntabile, rappresentata con il canone a cui il regista ci ha abituati ma che non riusciamo e non riusciremo ad accettare come standard (in senso jazzistico). Puntiamo il dito sul generale appiattimento del genere, lo sci-fi made in USA, offuscato dalla precisione millimetrica degli effetti (sempre meno speciali) e poco incline ad autentiche metafore, fermo ai più semplici meccanismi del simbolo. Con questa estetica Villeneuve si concilia alla perfezione, così preciso e accurato in ogni minimo particolare; ma la sua “imponenza gentile”, sempre alla soglia del minimalismo calligrafico, questa volta non basta a dotare e datare di senso la materia che tratta. Ed è ironico come un film che in larga parte vuole adempiere a parabola para-didattica sul linguaggio non riesca a dare rimarcare quello che gli è proprio. (AT)

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The Light Between Oceans  di Derek Cianfrance (Stati Uniti d’America, Australia, Nuova Zelanda) - ♥♥(♥)

Eccolo, il film (inaspettato) ricattatorio e lacrimevole, lo straccia budella ché arrivi piagnucolando al suo termine e nemmeno te ne accorgi, tanto del teatro allestito, se vogliamo parlare di cinema dei contenuti, non s’è pervenuta traccia. Da Cianfrance non ce l’aspettavamo completamente, questo colpo basso alle ginocchia che, a tratti, visto il contesto di finti autoruccoli che impiantano parabole para-religiose ridicole su giovinetti messianici, ci fa sussultare di gioia per lo sbalzo di background, come ad esser piombati sul sesto canale dopo un’ora e un quarto di messa domenicale trasmessa in diretta. Brividi illeciti a parte, questo melodramma nemmeno troppo pomposo nella regia, ma spietato nella narrazione,  ci traghetta verso lande desolate, scenari a là Rosamunde Pilcher, favolette del Nicholas Sparks più svergognato (non mi stupirei fosse tratto da un suo volume inedito), il tutto condito da aborti, esistenzialismi di superficie, intrecci dalla mano calcata, attori bravi che nemmeno riescono a spiccare in mezzo a tanta vacuità di messaggio (visto che del messaggio si vuol fare). Ed è un peccato, perché a far del cinema Cianfrance è capace, e non sfronzola (almeno) sotto il segno prettamente cinematografico, lasciando che una regia impersonale si ponga al servizio di un superfluo sproloquio di sentimenti. (LDV)

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El Cristo Ciego  di Christopher Murray (Cile, Francia) - ♥

Forse il film più supponente che ci si poteva aspettare in concorso. Baracche, ignoranza, suggestione, bella fotografia. La fortuna di aver visto El Cristo Ciego è quella di avere un nuovo metro di paragone per il livello di hipster-radical raggiungibile da una pellicola realizzata da un giovane autore. L’impronta stilistica che Murray da al suo neorealismo magico è disgustosa, ben oltre il limiti dell’exploitation. Nel suo narrare di nuovi profeti e di condizioni di vita disperate non riusciamo a capire se il regista tenga più a distanza noi o i personaggi che dipinge, ridotti a una dimensione animale, strumentale, tutt’altro che evocativa. L’immagine, invece che dedicarsi a loro, è maggiormente dedita a fare sfoggio di attrezzatura, di precisione tecnica. Più che la terra arida, sembra di sentire i ciak e i catering; più che il disagio e la spiritualità, la stoffa delle polo, i tagli di capelli. Il dogma snob alla massima potenza. (AT)

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Voyage of Time  di Terrence Malick (Stati Uniti d’America, Germania) - ♥(♥)

Se avete dei figli under six adesso avete modo di far loro conoscere Terrence Malick. Probabilmente anni dopo, se non si sarà già tatuato/a disegnetti new age da The Fountain o da qualcosa delle Wachowski, metterà nero-su-pelle qualche citazione dalla voce narrante di Cate Blanchett. Ma ancor prima verranno i dinosauri in CGI gommosa e i pescetti e le molecole e finiranno nel dimenticatoio tutti i documentari con cui, per magia, riuscivate a piantarlo/a da solo/a davanti al televisore. Poi proverete a fargli/le vedere The tree of life, Knight of cups, To the wonder e sarà lui/lei a farvi notare che sono la stessa cosa, Voyage compreso. Ripenserete ai vostri studi e ripercorrerete le vostre scelte, con rammarico, in grandangolo, inseguiti da una macchina da presa troppo leggera per voi, per la vostra massa e l’attrazione gravitazionale che ne consegue, appesantiti e disorientati, sfiniti, morti. (AT) 

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Les Beaux Jours d’Aranjuez  di Wim Wenders (Francia, Germania) - ♥♥

Per motivi tecnici, delle due proiezioni per la stampa una aveva unicamente i sottotioli in italiano, l’altra solo in inglese. Era indicato bene nel programma, ma l’assenza di sottotitoli in italiano è un evento più unico che raro a Venezia. Non tutti se ne sono accorti e, dopo pochi minuti, è iniziata una breve ma intensa sommossa che se fosse stata su Facebook sarebbe sembrata una di quelle squisite carrellate di commenti sotto ai link di articoli di politica interna. Questa è la cosa più interessante legata al film di Wenders che per il resto rimane definibile in uno di quei modi agghiaccianti: è per puristi, completisti e via discorrendo. Evidentemente Wim aveva due voglie contrapposte e l’idea, tutt’altro che secondaria, di giocare col 3D e allo stesso tempo di rivendicare la propria anima più canonicamente intellettuale, prendendo una pièce e assecondandone la teatralità, dialoghi legnosi e concettualismi compresi. L’opera nell’opera, la ricerca pseudonaturalistica del flusso più o meno cosciente del ricordo, la tensione/pulsione sessuale, le espadrillas.
Ma i tempi splendidi sono lontani e i pezzetti di sceneggiatura e i trick del digitale con gli occhialini, entrambi strumenti difficili e bastardi, rimangono ognuno per i fatti propri: non ci riesce quasi nessuno, soprattutto con i secondi, e di certo non c’è riuscito lui adesso. (AT)  

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