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Venezia 2016: L’Italia a pezzi (quattro stelle polari)

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Italia che viene, Italia che va. Nell’esplorazione alla ricerca di un nome noto che riesca anche portare un sussulto (uno vero, a luci spente, non stampato solo nero-su-bianco), dal Concorso dobbiamo stare lontani. E, rispogliando i nostri appunti, tovaglioli, pizzini è come andare alla ricerca di una memoria fisica ed amorfa, traslata, alogena che ricuce flashback di Cinema appartenenti al passato o a realtà nascoste.

Un produrre reattivo contaminato e superstite, distaccato da qualsiasi filone riconoscibile. Perle, piacevoli anomalie. Tra co-produzioni, documentari, registi laitanti, serie TV. Indicatori, in questi giorni, di un’essenza perduta, di giacimenti a parte, senza gasdotti che arrivino ai più. Reietti da una generale mediocrità, capaci di ripristinare fiducie e paure, ammaliamenti e sogni propulsori. Perché se il generale langue, lo specifico ci porta ad esultare. Per cinque minuti almeno, prima di ritrovarci a rifugiare in altri idiomi, stili, cliché, energie. Rigorosamente lontano dal Concorso ufficiale, quattro stelle di cui tatuarsi addosso le coordinate.

Monte  di Amir Naderi (Italia, Stati Uniti d’America, Francia) - ♥♥♥♥

Abbiamo Monte di Amir Naderi, che di italiano ha produzione, set e cast. Orgoglio e splendore, perché si tratta di gran lunga del miglior film visto in questo Festival. Praticamente on one-man-show di Andrea Sartoretti in perpetuo dialogo con la regia e con la pietra e le rocce. Una prima parte avvolgente costituita da un medioevo privo di didascalie prepara ad una lunga conclusione umana, simbolica, smisuratamente rabbiosa, totalizzante. Nel conteggiare gli avvenimenti necessari al suo quadro Naderi seziona secondo i dettami dell’animo, alla ricerca di un sentimento puro ed impietoso, devastato e devastante, unidirezionale, epurato di qualsiasi orpello. Un film che è sfida contro il divino ed insieme produttiva per la sua sfavillante unicità. La rabbia, le urla, le rocce: un film fatto con la pancia e con le nocche, con la polvere ed il dolore, con il portento di quest’ultimo a coronare la sensazione regina del “bellissimo disagio”. Monte è un film che fa sentire nell’occhio del ciclone della propria vita: con tutto il peso dell’esserci, con tutta la liberazione del racconto. Capolavoro.

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Tommaso  di Kim Rossi Stuart (Italia) – ♥♥♥(♥)+

Ed è graditissimo il ritorno di Kim Rossi Stuart alla regia, dopo l’ormai lontana perla che era Anche libero va bene. Come un Nanni Moretti Anni ’80 redivivo ma più grottesco e perverso mette in scena psicosi, perversioni, fissazioni  – cosa che si usa dire, in vano, per qualsiasi film italiano ma che stavolta avviene sul serio. Episodico, sconnesso, recitato talvolta a braccio, istintivo, sporco, carnale. Anche qui non ci troviamo con farciture di comodo, con trame ed articolazioni per mettere meglio sugli scaffali il film, ma con un’idea chiara e precisa, con una quintessenza messa realmente al centro. Rossi Stuart non ha pietà, dando vita a un personaggio odiabile, antieroico, difettoso – quasi una maschera, psicanalitica e comica, tagliente e trascinante. Senza accomodamenti, il vortice sessuale e relazione del film sta alla commedia romantica come una macelleria sta ad un negozio di animali. E se anche sembra che qualcuno, dietro le quinte, non abbia dato la giusta fiducia alle intuizioni di Rossi Stuart (ché talvolta sembrano esserci delle brusche frenate, sia nel montaggio che nella recitazione), la grandezza di Tommaso è inequivocabile.

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Liberami  di Federica Di Giacomo (Italia) – ♥♥♥♥

E giungiamo ad Orizzonti, con il suo vincitore: Liberami di Federica Di Giacomo. In barba a tutti i Rosi e le loro installazioni tecnico-commiserevoli, la regista riesce a raccontarci Tutto semplicemente con le sue camere digitali granulosissime. D’esorcismi e di rituali di gruppo al giorno d’oggi: sottilmente, dal raccapriccio, allo spavento, alla risata, all’empatia. Tutta un’idea (ideale e non ideologica) che ci viene data puramente, con un ritmo e un ordine che non lasciano tregua nella composizione del puzzle mentale. Di Giacomo trova la giusta distanza per dare un’ottica tridimensionale e depurata di una ritualità arcaica quanto genuina, spaventosa quanto invidiabile. Ci mette sotto gli occhi delle esistenze, non ci bisbiglia alcun giudizio: grazie.

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The Young Pope (episodi I-II)  di Paolo Sorrentino (Italia, Francia, Spagna, Stati Uniti d’America) - (♥♥♥♥)

E se fino ad ora abbiamo visto l’Italia brillare sotto tre differenti stelle – quella silenziosa e produttiva, quella autoriale e libera, quella documentaristica e selvaggia – è infine quella sotto i riflettori mondiali a darci una delel sorprese maggiori per aspettative, weirdness, follia e surrealtà complessiva. Con i primi due episodi di The Young Pope, ideata e diretta da Paolo Sorrentino per Sky ed HBO, ci ritroviamo con un oggetto strano, incatalogabile, sorprendente. Due ore senza una singola scena prevedibile, senza una convenzione, senza un accomodamento, senza un nesso che non riporti alla logica sorrentiniana. Parrebbe che nel formato seriale Paolone abbia ritrovato la propria dimensione ideale: come se nei suoi film si fosse di volta in volta dovuto limitare, nella realizzazione di certo più veloce rispetto a quella della sua pellicola, non ha il tempo di infarcire bizantino maledetto ogni momento, rimanendo più kitsch, sconclusionato, frullato, assurdo, intuitivo. Parole a briglia sciolta, prive del suo tipico stucchevole aulicismo, immagini sempre al cento per cento sue ma in qualche modo più umili, pulite, devote al narrativo (un narrativo ovviamente fuori da ogni canone, sia cinematografico che televisivo) e meno all’arty. C’è che ogni scena è una scossa, un tumulto nel ventre che fa venire voglia e fame di proseguire: TV, la stai facendo bene. E basterebbe una scena o una sequenza per cancellare dalla mente il ricordo di troppe ore perse dietro a chiacchiere lunghe un episodio, un anno, un decennio.

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L’italia c’è, ma va cercata. L’Italia è vera e varia.

 

 

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