Venezia 2017: Downsizing di Alexander Payne (in concorso – film d’apertura)
Lo aspettavamo al varco. Alexander Payne cade, paradossalmente (visto il titolo e la tematica), con(tro) qualcosa più grande di lui. È chiaro il suo gioco pseudo-indie: in barba al budget e allo spunto narrativo, prende la fantascienza e la spettacolarità e le mette da parte, sbandierando un presunto umanismo. Perché è lì che batte Payne, mostrandosi in tutto il suo snobismo para-autoriale che sembra dire: ok, ci metto al fantascienza, ma al contempo la schifo.
Una delusione d’amore, un ricominciare, nuovi volti con cui interfacciarsi, l’inevitabile delusione. Questo è Downsizing, nella sua ellissi. Visivamente è però dove Payne si premura di discostarsi da qualsiasi forma di spettacolo, rimanendo fedele al suo low profile. Eppure, a minutaggio, lo spazio per il potenziale visibilio non è poco, ma l’austerità intellettuale evidentemente gli impone di tacere e concentrarsi sugli sguardi. Ma Payne, amante umanista ma mai troppo profondo, sempre occupato in primis a gestire le dinamiche tra i suoi personaggi piuttosto che i personaggi stessi, si smarrisce e perde il controllo, indeciso o distaccato dalla caratura visiva che porta il film in totale difetto, dandoci infine un risultato totalmente sproporzionato rispetto all’impiego dei mezzi.
Lo vediamo volare verso i suoi limiti, sfiorarli e ricadere: immagini senza immaginario, per quanto probabilmente ricercato ed inseguito, perché altrimenti non si spiegherebbe il progressivo indebolimento del plot, che sul finale sfocia nel più elementare moralismo.
Sappiamo, grazie a Ridley Scott, quano sia possiile fare un film basandosi solo su Matt Damon: una riprova che tutte le debolezze di Downsizing sono da imputare al suo autore, evidentemente più a suo agio nel bianco-e-nero di Nebraska che in un diorama futuristico.