AD ASTRA di James Gray – Few Shades of Gray
Regia: Hirokazu Kore’eda
Sceneggiatura: Hirokazu Kore’eda
Cast: Brad Pitt, Tommy Lee Jones, Liv Tyler, Donald Sutherland
Anno: 2019
Produzione: USA, Cina
Pare che la versione originale, o una delle prime versioni avesse molte scene in meno.
Pare che il passaggio della Fox sotto le grinfie della Disney abbia determinato un rimescolamento degli elementi del film per renderlo più appetibile.
Citazione sempre cara: inutile come le tette su un cinghiale maschio.
Nella commistione di sguardi e mani pasta, in ordine (purtroppo) di prevalenza: per gli executive un nuovo Interstellar, per il Pitt produttore/interprete un nuovo personaggio tutt’altro che facile da caricarsi sulle spalle, per James Gray quella che probabilmente rimane e rimarrà a lungo la produzione più corposa della sua carriera.
Perché in Ad Astra il cinema di Gray c’è tutto, come ennesima incarnazione di dinamiche umane e avventura, a stretto nodo unite, soffocandosi piacevolmente tra loro in una messinscena asfittica.
Nuovamente: la distanza/unione tra le persone nell’apnea della conquista di qualcosa, della notte, del Nuovo Mondo, delle civiltà perdute; la conquista istintiva, connaturata nell’essere umano, nel suo fuggire da cose e persone, da vite intere, per un esplorare e possedere – o almeno sfiorare – totalmente privo di scopo se non quello di “allontanarsi”. E queste dinamiche avrebbero potuto raggiungere il loro apice, in una silenziosa epopea spaziale.
Ma il cinema di Gray è tanto opulento quanto sottile e fragile, e ciò basta a renderlo instabile non appena si provi a sfiorarlo, correggerlo, fino a vanificarne le caratteristiche stesse.
E non tanto per qualche spiegazione contestuale o scimmia spaziale di troppo, quanto per la messa a fuoco di elementi che sarebbe stato meglio se fossero rimasti nebulosi; non per fregiarsi di ermetismo ma perché il tempo per introdurli ed indicarli, vista la relativa aridità di avvenimenti nel film, c’era tutto, senza storpiarli o forzarli. La scelta però è stata non quella di insegnare allo spettatore come usare il cucchiaio, ma di imboccarlo praticamente da subito, riducendo il tutto, perché altro alla fine non è, a un pippone edipico.
Una quantità di chiose tanto acuminate da rompere completamente un meccanismo che altrimenti sarebbe stato di un piacevolissimo fluttuare.