NOMADLAND di Chloé Zhao – Leone d’oro
Regia: Chloé Zhao
Sceneggiatura: Chloé Zhao
Cast: Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Swankie
Anno: 2020
Produzione: USA
Vedere un dirigente Disney ritirare il Leone d’Oro fa male. Non tanto per quel che la compagnia oggi incarna (dopotutto fa parte di un processo iniziato quasi un secolo fa ed è, a suo modo, molto coerente), ma perché, pur considerando l’acquisizione della Fox come un fattore secondario e la metamorfosi americanocentrica della Mostra come un semplice dato di fatto, vien da chiedersi se in un’annata “normale” un film come Nomadland avrebbe potuto vincere. Sulla scacchiera mediatica tutto è al suo posto, letteralmente tutto: per l’utente mainstream, da qualsiasi lato venga approcciato il fatto, c’è solo da pensar bene di questa vittoria, avendo o non avendo visto il film. Ma molto di ciò fa parte di una regressione espressiva con cui dobbiamo sì fare i conti, ma non lasciar prevalere.
Per forma e per concetto, Nomadland è un film carente ed elementare, solo in apparenza minimalista ma in realtà tronfio di stilizzazione e di sguardo “sfruttatore”. Basta l’ormai noto “Frances McDormand che caga in un secchio” presentatoci durante i primi momenti del film a trovare la chiave di lettura: un demo stilistica su un palco costruito ad hoc, per la regista e la sua protagonista. Ma se la macchinosità con cui determinate pellicole vengono realizzate con lo scopo di rimarcare in ogni singolo istante le capacità attoriali è (una brutta) norma, il fatto che il film venga artificiosamente spogliato e ridotto a esercizio globale da parte di chi lo dirige è desolante, non tanto per l’esercizio in sé che, se fosse stato eminentemente cinematografico sarebbe stato accoglibile a braccia aperte, quanto per il fatto che si tratta di una exibition di presunta umanità.
Chloé Zhao non sperimenta e non cerca nulla, ma attinge solamente a piene mani da stilemi già consolidati e logori, sfruttandoli per rimarcare una certa cifra “misericordiosa” da cui non ci arriva però nessuna sincerità. La presunzione di realismo e l’innesto di realtà nella finzione vengono qui piegati al narcisismo mascherato da pauperismo. Nomadland è un film in cui l’occhio si posa sì su un determinato stile di vita e sui percorsi individuali dei suoi personaggi, ma l’incapsulamento con cui il tutto viene raccontato è di distacco, di forzata empatia e l’impressione è che tutti, dopo aver girato ogni scena, siano corsi a lavarsi le mani.
Quello di Nomadland è cinema-safari dei più sfiancanti e iniqui, la cui unica utilità è quella di consolare il suo pubblico, che in questi scampagnate fuori porta trova le good vibes per iniziare la sua settimana. Quella volta che ho cagato in un secchio.