SPENCER di Pablo Larraín – Recensione
Regia: Audrey Diwan
Nazionalità: Germania, Cile, Regno Unito
Cast: Kristen Stewart, Jack Farthing, Timothy Spall
Questa seconda incursione, dopo Jackie, di Larraín nella Storia novecentesca presa nella sua parzialità ed esplorata nei suoi singoli istanti, ci arriva come una prova registica dai risultati ben più soddisfacenti rispetto alla precedente. “Prova registica”: suona quasi come un tecnicismo, ma è palese che il daffare di Larraín nell’eviscerare icone popolari – in confronto ai suoi lavori sudamericani come l’ultimo Ema, sempre a Venezia – sia un lavoro che nasce mercenario, in cui script e regia sembrano viaggiare l’uno sull’altro in un continuo dialogo ma senza mescolarsi mai, ognuno al proprio posto.
E il buono che c’è nello script di Steven Knight sembra trasparire in ogni inquadratura, in ogni momento.
La scelta è questa: Diana alla vigilia di un Natale e della rottura con Carlo, alle prese con i propri fantasmi, ansie, angosce, scoperte di sé. Semplice e cristallina, idea minima e aperta a moltissime varianti, tra le quali viene scelta quella della suggestione, dell’allucinazione, degli ectoplasmi. Come in una semitrasparenza, il lavoro ha al contempo il pregio di essere una gran lezione di messa in scena, dall’altro invece, in ogni inquadratura, in ogni scelta, in ogni dialogo o silenzio dallo schermo stesso è come se stessimo leggendo la sceneggiatura.
E se da un lato non c’è quasi nulla riguardante la Royal Family (vituperata o perlomeno descritta per quello che, sempre, mediaticamente) che possa dar sussulto, Spencer – titolo che in automatico ci pone a una distanza invalicabile rispetto a quella che è/era la Famiglia Reale – cerca proprio nell’eliminazione del superfluo il proprio setting, rientrando in quel filone di biopic parziali che fanno buon uso degli avvenimenti-chiave per portare il discorso su un piano estremamente differente a livello espressivo, arrivando ad assumere i connotati di un ritratto (in senso strettamente pittorico) con Diana al centro e i suoi fantasmi tutti attorno.
Che questo modus operandi, quello di “allegoria amplificata”, possa dare i suoi frutti è indubbio – «Guardatevi un documentario, leggetevi Wikipedia, questo film è altro. Molto poco di alcune cose, moltissimo di altre» – il suddetto incedere parallelo di sceneggiatura e regia rende il tutto artificioso, teatrale per le sue tempistiche perfette, asettico per le sue scelte visive, come un encomiabile saggio scolastico di un duo sceneggiatore/regista che lasciano ognuno all’altro il proprio spazio per esprimersi. E in ciò tutto appare al contempo geometrico, spettacolare e insieme asettico, avvolgente ma macchinoso. Dicotomie allontananti, ma che perlomeno ci permettono di godere di scaglie di Cinema.