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63° MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA: 31 AGOSTO / 09
SETTEMBRE
A VENEZIA UN SETTEMBRE NERO
INCHIOSTRO – A cura di Alessandro
Tavola
Apre, anzi ha aperto (per sempre), questa Venezia 63 l’ultimo film di Brian DePalma, The Black Dahlia, e già, in questo parlare postumo a quegli undici
Venice Days, si riafferma il sentore iniziale che quest’anno dietro al
festival nella sua totalità ci sia stato un disegno, un mood portante, un
collettivo sfacelo/rinascimento univoco, in tutto e per tutto, da e tra ogni
film proiettato.
Un ammucchiarsi di elementi che si macchia(va)no tra di loro, per noi
positivisti, in una visione complessiva che vedeva la manifestazione come un
unico organismo, unica grande compilation di
pensieri–idee-sorprese-delusioni imprendiscindibili l’una
dall’altra, pellicole che in un modo o nell’altro si annusavano e
mordevano la coda tra di loro, (inter)lacciate per richiami visivi o musicali,
messe a cerchio-scacchiera in un unico quadro-parete, danzanti assieme come in
una ballata felliniana, se non addirittura nel loro lamentarsi collettivo,
pianto di gruppo, legati e torturati in splendidità formale come nella scena
finale di Salò (che anche quest’anno ritorna, come vettore
documentaristico, sempre più attuale).
Questo perché c’è molta più (tra le righe, ma anche nella loro
sostanzialità) omogeneità rispetto alla 62, che vedeva cozzare tra di loro film
troppo diversi nell’animo, contrapponendo amori impossibili del vincitore
Brokeback Mountain a quelli ideali di
Elizabethtown, splendere del sogno
americano in Cinderella Man e sua
morte in Edmond, mentre in questo
2006 tutto diventa cromaticamente riconducibile ad un colore (che poi non lo
è): il (quasi) NERO.
Quel grigissimo funereo comune (im)mortale ai fotogrammi in ogni completarsi di
dissolvenza, nell’incenerirsi di una scena, nelle macerie pensierose cinefile
della collettività che non può non trovare quel rimando infinito all’11
settembre 2001, veicolo narrativo già tediante, ma funzionante, nella visione
nera di un punto di non ritorno, cronaca di morte annunciata, fuori e dentro il
mondo di ogni film, con Oliver Stone
e World Trade Center che accetta di
uccidere il proprio Cinema pur di narrarla o Quelques jours en septembre
di Santiago Amigorena che ne fa
futile irreversibile countdown per i suoi personaggi.
«Per voi è solo un film, per me è la vita intera» si fa più che mai giusto il
sentore da subito vivo, da quella laguna graffiata come un tramonto
pretemporalesco su libretti, poster e portapass il legaccio tra ogni
sogno-film, tra mondo e mondo, in un anno in cui il Signore dei doppi trip David Lynch riceve il Leone d’Oro
alla carriera, presentando il suo non-Capolavoro, summa e archivio del suo
immaginario visivo, INLAND EMPIRE.
VENICE EMPIRE a questo punto, il festival del Noir, della decadenza, del
disfattismo, nell’annullamento quasi totale dell’happy ending,
nelle storie, nei dialoghi, nel valore stesso dei film, anche nel loro essere
infimi nella qualità e scialbi nella forma.
Negativismo che si fa positivo pulsare, colonna portante di un festival spesso
dato per spacciato, soprattutto adesso, col coltello della Festa di Roma
puntato sulla schiena, mantenendo la testa alta, ritrovando un’identità,
con un parco film imperfetto ma potente, contando tra le sue fila grandi titoli
già da tempo attesi, un giorno magari considerati come capolavori snobbati nel
loro avere le idee (fin troppo) chiare – e balzano subito alla testa i
pensieri per Children of men di Cuaron e The fountain di Aronofsky,
i due avversi e moderni, entrambi caldo magma di un cinema radicato nel
presente e lover del passato ma ammiccante al futuro, in stili e idee - e
piacevoli sorprese da parte di attori incarnificati registi, come The hottest state di Ethan Hawke o Le pressentiment di Jean-Pierre
Darroussin.
Cupo amore anche nel veder splendere grandi maestri classici come lo stesso DePalma, Resnais con Coeurs o Manoel De Oliveira con Belle
toujours o il riaffermarsi di Tsai con
I don’t want to sleep alone.
Sorridente “vabbè” nella post-visione di film etichettabili
tranquillamente come “brutti” o “inutili” (e il
Giappone quest’anno ce ne ha forniti, purtroppo).
Venezia 63, nel suo essere oscuro, brilla, brilla di coerenza e completezza
(lucide o istintive? Chissene), Requiem Beethoveniano e allo stesso tempo New
Born.
Euphoria di Ivan Vyrypaev.
Perché nonostante i metal detector buffoneschi, le visioni da zombi (sempre
troppo presto o troppo tardi), alcune aspettative (quasi sempre legittime)
infrante, le code o troppo calde o troppo fredde, ci ha dato, così come deve
essere, decine di ore di Cinema – classico/straniante/nuovo/trans/transgenico/trash/spettacolare/incasinato/spento/silenzioso/di
perfezioneformale/d’imperfezione/emotiva/sonnifero/acido/alcolico/sessuale/inquinato/colorato/morto/rinato/infinito/di
sangue e di parole – in ogni graffietto e in ogni pixel.
Perché ricordando questo Festival con la tipica estremizzazione da titoli di
coda, tra “Una merda” e “Capolavoro”, sarebbe
tranquillamente la seconda.
VENEZIA/ROMA: LA NON SFIDA – A cura di Davide Ticchi
Si apre in “festa” la mostra cinematografica lagunare di quest’anno,
che giunta alla sua sessantatreesima edizione non sembra avere rivali al mondo
in quanto Mostra, termine su cui il suo direttore Marco Muller punta più volte il dito, quasi a volercelo ricordare.
Infatti la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, come ogni mostra che si
rispetti, propone un suo fil rouge chiave, che sta nel giusto equilibrio fra
tradizione e innovazione, riassunto in un unico concetto e proponimento di
“qualità”. Quella qualità poco ovvia certo, che vive in sordina,
austeramente e pronta a sorprenderci nei momenti meno attesi, poco
pubblicizzata e forse mai nemmeno distribuita, ma sempre qualità, alternativa,
e quindi ancor più folgorante. Ora, la parola “festa” è stata
pronunciata, e non a caso. La sfida immaginifica di soldi, interessi, vips ed
intenzioni è stata profetizzata tra due città secolari e storicamente
fondamentali come Venezia e Roma, che giustamente meritano anche una parata
cinematografica, oltre a quelle in costume che svolgono ogni anno per
commemorare le imprese compiute nel passato epico-navale. Ma se queste servono
a guardarsi indietro, quelle cinematografiche, così eterogenee ed evolute,
rappresentano forse uno scorcio di presente e un anticipazione di futuro,
quelle porzioni di tempo cioè che solo grazie all’occhio della mdp
possiamo vedere scorrere davanti a noi, osservare andare e venire in seguito ad
una mis en scéne accurata e minuziosa. Insomma, le città di Venezia e Roma
possono averne bisogno più di qualsiasi altro luogo d’arte. Ma non
conviene confondere l’arte col sistema artistico, e con questo intendo
dire che osservando la disputa avvenuta fin’oggi tra le due corporazioni,
quella della Mostra di Venezia e quella della Festa di Roma, sembra
rappresentarsi autonomamente un piccolo teatrino di contese stupide e beffarde,
come tra due bambini che agognano al gioco dell’altro. Insomma, era
prevedibile un contenzioso del genere, ma non così ottusamente improduttivo,
perché dalle differenze degli altri si comprendono le caratteristiche
individuali, e queste rendono autonomi e indipendenti, non ostinati a ritornare
troppo spesso sul “solito” discorso… E allora diciamo pure
che il campo è privo di agibilità e che le squadre hanno deciso di scenderci
ugualmente, anche se la loro partita non figurerà mai sui tabellini. Croff e Veltroni vogliono qualcosa di diverso, e hanno dato due spunti
differenti alle loro rispettive rassegne cinematografiche a premi. Il primo
vuole che prosegua tramite Muller la
tradizione ormai “mitica” della kermesse veneziana, ed il secondo,
sindaco cinefilo, desidera introdurre la sua passione nella città che governa,
Roma. Insomma una (non) sfida che terminerebbe 63 a 1 sulla carta, ma che in
realtà deve ancora iniziare e mai comincerà. Sì perché in fondo i presupposti
sono diversi, speculari come abbiamo detto, le tradizioni, i fini (qualitativi
vs. commerciali) e i direttori pure (Muller
vs. Detassis). Alla fine la
disamina si riduce ad una constatazione, ci sorprendiamo e preoccupiamo perché
una Festa del cinema può superare una Mostra, ammettendo così la nostra mala
educazione alla settima arte ed alle sue diverse qualità e quantità.
ONE LAST THING BEFORE I SHUFFLE OFF THE
PLANET – A cura di Pierre
Hombrebueno
Tirando le somme. Così ci siamo sbagliati nelle previsioni. Per fortuna.
Venezia non è mai stato così autoriale come festival, nel vero senso della
parola “autorialità”, nella congiunzione d’intenti e di
risultati, nell’omogeneità del lavoro svolto che rende questa edizione un
magnifico album di direzioni univoche. Ed in fondo Marco Muller l’aveva detto. Nelle prime due edizioni sotto la
sua guida ha dovuto vendersi per sondare bene il terreno, pensare più al
glamour che al valore filmico delle opere presentate, al loro intrecciarsi di
storie ed evoluzioni, riflessioni sulla settima arte e sulla strada che stiamo
prendendo o rifiutando. Come se Muller
fosse stato una puttana per due anni, esattamente. Ma questa volta è diverso,
più personale/personalizzante, che se su carta ha destato i nostri più
incazzosi sospetti, su schermo s’è trasformato invece in un capolavoro
pittorico d’incastri perfetti tra i propri pezzi del puzzle. Un disegno
superiore della carta per formare quel qualcosa di mistico, mood-spirituale che
non contagia solamente le opere presentate alla Mostra, ma anche il pubblico
travolto da questo nero, da tutto questo riflettersi del mondo cinematografico
che arriva immediatamente a rispecchiare l’anima dell’incertezza
nella fluidità dell’orizzonte. Non più in the mood for
love, ma in the mood for reflexion. O come ancora una volta, citando JLG: “Non è più il tempo dell’azione. Ora è il tempo di
pensare”. E si pensa/ragiona/riflette tantissimo in questo festival,
nella sua assenza quasi totale di film inutili; ogni vocazione dello schermo
che si tinge nero poi bianco è l’incipit della visceralità profonda in
cui le opere veneziane di quest’anno c’hanno portati ad
addentrarci, a plasmarci, a rispondere ancora una volta in prima persona
davanti all’Arte.
Abbiamo trovato una Mostra del Cinema finalmente consapevole di quello che
vuole provocare ed essere. E la missione è compiuta perfettamente. Basta fare
le puttane, qui si corrono rischi, quegli stessi rischi che hanno avuto il
coraggio e la lucidità intellettuale di premiare col Leone D’Oro un’opera
così poco distribuibile come Still life
di Jia Zhang-Ke. Quest’anno Muller
se le scorda le nominations ai Golden Globes e agl’Oscar, è totalmente
libero così come è totalmente libera la giuria internazionale. Ma se c’è
qualcosa in cui Muller ha perso, quella è proprio nell’impatto mediatico
di questo festival: molto meno vips e dive in passerella, molto meno
feste/festine/festoni, molto meno glamour. In questo, forse, quella tanta
chiacchierata Festa del Cinema di Roma ha già vinto in partenza. Ma questo è il
prezzo da pagare per riportare una vetrina come quella di Venezia al massimo
della sua artisticità, della valorizzazione estrema di tutte le forme
cinematografiche, non solo popolari. Pochi eletti sono destinati ad apprezzare
nella fruizione un capolavoro come Still
life. Stavolta Venezia non sarà sulle primissime pagine. In passerella non
ci sono né Nicole Kidman né Sean Connery. E da questo momento in poi
forse diverse redazioni sceglieranno di spedire i loro inviati a Roma, e non
più al Lido.
Ma come qualcuna cantava: “sai, si muore un po’ per poter
vivere”.
Noi,
con Muller, ci saremo sempre. Dalla primissima fila della nostra passione.
I
VINCITORI DI QUESTA EDIZIONE:
http://www.labiennale.org/it/news/cinema/it/65254.html
(13/09/06)