IL VENTO CHE ACCAREZZA L’ERBA
REGIA: Ken loach
SCENEGGIATURA: Paul Laverty
CAST: Cillian Murphy, Padraic Delaney, Liam Cunningham
ANNO: 2006
A cura di Alessandro Tavola
SUI MERITI, SUI FILM, SUI(NI).
Si parla di premi meritati, ma solo perché l’argomento è nobile.
Si parla di grandi ricostruzioni, ma solo perchè
alcune precisioni sono da manuale universitario.
Si parla di maestria e capacità, ma solo perché esse sono così prese alla larga
che potrebbero sembrare sfondate dal di dentro.
Perché raccontando della guerra d’indipendenza irlandese,
l’approccio visivo di Loach mostra ancora una volta palesemente
tutti i suoi limiti, (ri)avvalendosi in
un’ormai (per riflesso) roboante maniera della più totale fiacchezza
filmica e caratteriale, mostrando solamente un sbriciolamento/annientamento di
tutto un potenziale che non riesce o non vuole sfruttare, facendo di (ciò che
ci appare di) un intenso script – per tematiche, per contraccolpi
narrativi e verbali – un bel vaso che cade in cocci, dal taglio fasullo e
dalle forme appartenenti ad altri prima di lui, credendo che l’anonimato
ritmico e formale sia sempre la via migliore, o che, meglio, tale anonimato
possa essere un proprio suo lato autoriale, ma che in
realtà rivive e rimuore cadavere di una memoria
collettiva ormai muta e cieca, propria oggi della bassezza televisiva, o della
ricerca intellettualoide filo-storiografica che, nel suo assoluto diritto e bisogno
di esistere, in mano sua diviene scritto impiastricciato e anti-enfatico, ruffianamente piatto, senza affanno alla ricerca di
autorialità che non gli compete.
Castello in aria ancora di più pompato ad elio da una Palma d’Oro
assolutamente immeritata, nuovo filamento dell’artefatta e immotivata
ragnatela che vedrebbe Loach
quale un grande regista, che, forse tentando di fare
un cinema delle non-immagini, pare rincorrere il Graal
della classicità, cercando di non allontanarsi mai dai limiti che essa comporterebbe,
ma mostrando segni evidenti di incapacità artistica e di rimando da puro
cinema(?) da fotocopia ingiallita, da modulo burocratico della messa in scena,
che nei casi migliori sfociano in scene prettamente senili, per
tempi/colori/motivazioni/schemi, senza la verve che può essere di un Clint Eastwood, di
un nostro Pupi Avati,
se non addirittura di alcune prove dello zimbello Ron Howard.
Si pensi ad un ospizio.
Il suo non riuscire a non toccare in maniera cinematograficamente
attiva nessuna delle corde che la disciplina concernerebbe, fa sì che il
pressappochismo di cui si avvale nel gioco di reimpiantare il tutto già fatto
da altri, trasformi questa fuga/rincorsa del cinema, senza mai toccarlo, e
possa pulsare addirittura come un vilipendio piuttosto che come un fallimentare
omaggio o ricerca d’appartenenza a una categoria
con la quale non ha in realtà nulla a cui sparire, se non pochi buoni momenti,
qui come in altri suoi film, che dal palpito da bassoventre riuscivano a
passare al palpito cardiaco, sempre incarnati attraverso l’asservirsi
alle recitazioni e alle parole e alla più totale empatia situazionale
piuttosto che all’architettura cinematografica, nuovamente, assente. Perché di “momenti migliori” in Il vento che accarezza
l’erba ce ne sono e quasi tutti sono di dialogo (ma basta pensare per
un soffio a Goodnight and goodluck
per trovare il giusto, il meglio) e quasi nessuno non lo è, sia esso basato su
uno sguardo, un silenzio, un fucile o una musica... Muffiti, rubati, non capiti
e qui rigettati, troppo lucenti di Cillian Murphy.
E non c’è niente di peggio di un cinema che si assoggetta alle proprie
storie.
Dal girovagare attorno a ghirigori da manuale illustrato, che riescono a rendere odiosa la più semplice panoramica, al
trascinarsi stanco della vicenda di botta e risposta e della maniera più
asmatica che ci possa essere di portare avanti la vicenda più vecchia che si
possa raccontare. Perché Caino e Abele anche se mescolati sono sempre Caino e
Abele, e tutto dipende da chi shakera, e Loach il braccio proprio non ce l’ha. Ma il problema
non è tanto chi non lo ha, che comunque ci ricorda
come le cose andrebbero fatte (e lo sguardo si volge sorridente e commosso
verso il caro Uwe Boll), ma
chi, pur inadatto, riesce a crearsi attorno quella cerchia di estimatori.
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