VIALE DEL TRAMONTO
REGIA: Billy Wilder
SCENEGGIATURA: Charles Brackett, D.M. Marshan, Billy Wilder
CAST: Gloria Swanson, William Holden, Erich Von Stroheim
ANNO: 1950
A cura di Luca Lombardini
C’E’ UN CADAVERE IN
PISCINA
Esistono film imprescindibili, inclassificabili e imperativi. Film che se non
esistessero bisognerebbe inventarli, titoli unici, necessari e indispensabili: Sunset Boulevard è uno di questi.
Durante la sua carriera Billy Wilder
ha diretto una serie infinita di capolavori, sui quali però, svetta
inarrivabile Viale del tramonto,
pellicola capace come poche altre nella storia del cinema di fare genere e
categoria a sé.
L’ottava fatica del regista austriaco occupa alcune delle pagine più
belle dell’intera mitologia cinematografica. Un opera immensa dallo
straordinario impatto visivo e narrativo, in grado di sgomentare la Hollywood
degli anni ’50 e, allo stesso tempo, abile nel lasciare ai posteri un
ritratto lucido e impietoso della stessa.
Aperto in medias res da uno dei piani sequenza più importanti della storia del
cinema, regolato attraverso l’espediente del flashback (che Wilder utilizzò già ne La fiamma del peccato, film che codificò
il noir), fotografato con un bianco e nero opprimente che suggerisce
un’angoscia continua, magistralmente costruito su una calcolata sequenza
di congiunzioni di natura tematica (il giovane e l’anziana, lo spettacolo
e la vita reale), narrativa (la voce fuori campo e il dialogo) e visiva (luci e
ombre, vuoti e pieni), posizionate tra loro in maniera conflittuale; Sunset Boulevard è una dettagliatissima
tesi di laurea intorno alle impietose meccaniche produttive e
“starsistemistiche”, sulle quali poggiano le attività della
fabbrica dei sogni più celebre del pianeta. Wilder
non risparmia nessuno dei suoi personaggi, saziando ogni singolo momento del
racconto con il suo consueto cinismo: Gloria
Swanson rappresenta la Hollywood muta e decaduta che non si rassegna ad una
vita buia e distante dai teatri di posa (l’unico momento di luce coincide
con l’occhio di bue che l’abbaglia durante l’illusoria visita
sul set di Sansone e Dalila), la sua
ingordigia di notorietà mista a dipendenza dalle copertine dei rotocalchi è talmente
elevata e contagiosa da corrompere lo spiantato William Holden e l’innocente Nancy Olson, con il primo prigioniero della bambagia e degli agi
derivati dalla vita del mantenuto, che cerca riparo nei vent’anni della
seconda, trovando in lei non solo la naturale antitesi di Norma (<<il
profumo dei campi di grano e dei fazzoletti di lino lavati di fresco>>),
ma anche una latente ambizione alla visibilità, che spinge la giovane ad
inseguire il titolo di sceneggiatrice (<<vuoi vedere il tuo nome sui
titoli vero? Sceneggiatura di… soggetto originale di… >>), al
fine di lenire il rammarico per non essere mai diventata un’ attrice di
successo. La Hollywood di Wilder è
una macchina dell’inganno vista da dentro, un mondo fatto di illusioni e
di finzione che si sgretola una volta spente le luci, finita la musica, andati
via i fotografi; un universo parallelo dove tutti vogliono essere protagonisti
e nessuno desidera rimanere sul fondo della scena, relegato al poco nobile
ruolo di comparsa. Per questo motivo l’autore, decide di mostrarci tutto
quanto ciò che concerne lo specifico cinematografico dell’epoca: i
discorsi dello sceneggiatore, i parametri di accettazione/rifiuto di uno
script, il viavai degli studi, il cancello d’entrata della Paramount; mentre
l’opera intera viene disseminata di partecipazioni illustri: Buster Keaton, che si intravede come
frequentatore di casa Desmond, o Erich
Von Stroheim, il regista di Femmine
folli e Rapacità, (lo stesso che
disse: “Hollywood ha la memoria corta, lì uno vale solo quanto vale il
suo film”), qui nel ruolo di Max Von Mayerling, primo marito della diva
Desmond, talmente invaghito di lei da trasformarsi nel suo maggiordomo tutto
fare. Una categoria, quella dei grandi registi che si trasformano in attori per
qualche posa, completata dalla performance di un altro grande del cinema: C.B. De Mille, che per una volta si
posiziona davanti la macchina da presa interpretando sé stesso con tanto di
stivali di cuoio e fare autoritario.
La vera forza di Sunset Boulevard
quindi, risiede nella sua spinta metacinematografica, che gli permette di
elevarsi oltre i codici, già di per se oltre generici, del noir. Perché se
quest’ultimo celebrava le forze disgregatrici dell’individuo
causate dall’intervento della donna fatale, in Viale del tramonto l’estrema conseguenza viene raggiunta solo
apparentemente attraverso le gesta della figura femminile, specchio per le
allodole dietro il quale si nasconde la forza corrotta e centripeta
dell’intera macchina cinema americana che, una volta privata dell’inganno
di scena, non può fare a meno di rivelare il profilo nascosto del suo volto:
quello di un apparato produttivo in grado si di trasformare i sogni in materia,
ma capace anche di macchiare l’animo più candido (Nancy Olson) e romantico (William
Holden).
Emblematica a tal proposito, “l’ultima posa” della Swanson. Una sequenza conclusiva
attraverso la quale Wilder anticipa
di 18 anni il manifesto situazionista, imprimendo su pellicola
l’impossibilità di trovare un’alternativa allo spettacolo. Con esso
e con la fabbrica dei sogni bisogna giocoforza conviverci, perché detestare
Hollywood vorrebbe dire odiare il cinema, e apprezzarlo fino in fondo
equivarrebbe ad essere ad essere privi di sentimenti umani.
(08/01/07)