VIOLENT COP

REGIA: Takeshi Kitano
SCENEGGIATURA: Hisashi Nozawa, Takeshi Kitano
CAST: Takeshi Kitano, Maiko Kawakami, Makoto Ashikawa
ANNO: 1989


A cura di Alessandro Tavola

AL PRIMO COLPO UN CARICATORE COMPLETO

 

È nella prima pratica registica, che inizia stravolgendo uno script e facendo propri i tempi dell’azione, dei cuts, dell’a(e)ssenza, dei dialoghi, che è subito, geneticamente, il Takeshi Kitano del Montaggio, a detta la sua pratica prediletta, che c’è e non c’è, ancora teoria princip(iant)e e tendenza del suo futuro (non) esserci, deframmentante in su(e)ccessiva venuta, a scandire long take senza subbio incerti, ancora legati al narrativo e non del tutto dediti all’anestetico emozionale ma già seme del loro minimalismo gigantesco, già previi di follia che risiede(rà) nel fato (principalmente) e nella quietata confusione mentale (Hana-bi, Getting any e Zatoichi in particolare) e non nel virtuoso, che qui non è un verbo riflessivo: pochi stacchi come molti sussulti che «essendo così in numero limitato assumono enorme valore» più che per Kubrick, difatti parafrasavo non so chi riguardo questi, che dell’editing fece l’insignificanza filmico-globale e virtuosismo di secondo livello (il primo era la plasticità); più che per Tsai Ming Liang, che l’essenza la trova nei quadri stessi, col montaggio come necessità per cambiarli; Kitano ha personaggi che vogliono non-essere-più, che attendono la fine dell’inquadratura, che sembrano trascinarsi, il suo passo goffo, tutto ciò che c’è dietro di loro nell’immagine – i palazzi, i corridoi, le strade, i rumori – e guardano, fissano ciò che ne è al di fuori, cercano di disinteressarsi o non se ne interessano (più), imparano a farlo; sono ciechi, o cercano di esserlo, vogliono perdere i sensi, perdere la nostalgia congenita, trovare la forza della contumacia ideale e assoluta; sostituire il Pessimismo, ch’in Violent cop è fluida principale arteria di genere, con il Sardonismo, traslato nel finale nel ghigno del giovane protagonista-apprendista, inconsiderabile ora se non come punto di partenza di quasi tutte le successive pellicole (a parte L’estate di Kikujiro, che è sostanzialmente uno stand-alone catarsi della catarsi, e le opere da Zatoichi in poi, che è per il Kitano di oggi ciò che Violent cop è per quello degli anni ’90) in quanto disfatta irreparabile, una morte già avvenuta, di cui appunto Sono otoko, kyobo ni tsuki aka Attenzione, quest’uomo è pericoloso è cronaca e automaticamente gestazione, transfilmicamente preludio di una fuga dall’essere uomini (pericolosi) in cui solo i bambini e la fanciullezza come capolino/manifestazione/spensieratezza verranno trattati con umanità, parallela a una concezione cinematografica man mano prosciugata e raffinata, solenne e distillata, depurata; acquavite di Hana-bi e Dolls, con Violent cop quale grappolo appena colto: rimaneggiata la sceneggiatura di tutte le parti che prevedevano della commedia, rimane la crudezza avallata al genere che ne fa un film su poliziotti e yakuza (che in futuro saranno nessi di una universalità), in cui crimine e corruzione sono trattati ancora in quanto tali insieme alla progressione narrativa, in con-connessione al Cinema precedente e ciò che verrà d’Autore poi, che qui non può far altro che iniziare a conoscere sé stesso, ciò che vuole e come lo vuole, autofecondando la Nuova Figura che sarà, allontanandosi dalla prima equazione-definizione (all’epoca ardua, vista la provenienza dal comico) accollatigli, che generalista appare come un Kurosawa+Fukasaku(che proprio Violent cop avrebbe dovuto dirigere)+Ozu, per tematiche i primi due e per connotazione dei personaggi il terzo, ma che formalmente appartiene già ad altro, sia come tempistiche, con sequenze che sussurrano indipendenza le une dalle altre (cifra del comico, cifra di Kitano futura) e un qualunquismo epidermico che pochi hanno reso protagonista, sia come geometrie della sterilità (d’un immaginario collettivo lontano dall’occidente) e tutti gli altri sprazzi di Kitanità che, come letteratura cinefila vuole, appaiono in un’opera prima come in un vivaio e che fanno di Violent cop la storia delle storie di Kitano, che tali non sono: singole idee concettuali, filosofiche, formali, tematiche; i quadri, il mare, la violenza rallentata e lontana, la ripetitività, l’incolmabilità dei pensieri, l’apatia, l’isterica risata, la vendetta, la ricerca della calma, la pesantezza che i personaggi si portano dietro dal proprio primo fotogramma (come in Avati con la prima parola), le aspettative e l’assenza di esse qui compaiono, e poi avranno ognuna il proprio Film, saranno ognuna di ogni Film, saranno l’unico Tutto quando la ricerca sarà del Niente e parleranno attraverso la determinatezza che lo capaciterà di inquadrature (pre)fiss(at)e, lunghe e bluastre, inondate dalla musica di Joe Hisaishi, che varrà quel mare (il nulla, lo sconfinato, la pace) tanto amato, elogiato, spiato, usato, anti-galvanizzato fino a renderlo presente, invisibile (inesauribile) dissolvenza di sensazione, anche nelle immagini in cui non vi è ma viene sentito, felt and heard, tanto da fare di ogni complessità di racconto un’inutilità di fronte alla Vastità, che in Kyobo ni tsuki è un magazzino vuoto, mostrato quando la luce si accende post mortem («Qui sono tutti impazziti»), prima celata nella classicità e nell’incertezza stilistica, col più nel chissà-che-cosa che appartiene al principio, di Beat Takeshi che alla prima scena assiste senza essere visto, per poi entrare nel quadro, mentre in futuro apparirà con esso; di Takeshi Kitano che con delle luci al neon e un ponte ripercorso da un ragazzino ormai sverginato alla crudeltà necessaria, nasce; di un’Opera, che qui trova il suo canovaccio mascherato da film.

(09/11/07)

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