VISITOR Q

REGIA: Takashi Miike
CAST: Endo Kenichi, Uchida Shungiku, Nakahara Reiko, Muto Jun, Watanabe Kozushi
SCENEGGIATURA: Era Itaru
ANNO: 2001


A cura di Luca Lombardini

Introduzione

Il nostro è un paese a dir poco strano. Per apprezzare ciò che la sua cultura produce, sembra conoscere soltanto due modi. Il primo prevede l’arrivo dello straniero (meglio se americano) che, dall’alto della sua presunta superiorità, un bel giorno ci convince che si, quello che fino all’altro ieri definivamo spazzatura proprio così schifo non fa; il secondo invece, ha come protagonista assoluto l’inamidato fazzoletto bianco, quello che dà un tono alla giacca della domenica, che viene puntualmente utilizzato per asciugarsi il viso solcato dal pianto ogni qual volta un regista, un cantante, un poeta, uno scrittore passa a miglior vita: ma le lacrime di coccodrillo si sa, sono difficili da mandar via, perché lontanissime dall’essere spontanee, ed assumono una forma densa e pastosa, l’ideale per far innervosire i truccatori dei TG e delle rubriche televisive.
L’ Italia è da sempre il paese delle celebrazioni e delle rivalutazioni, dei premi alla carriera, dei maestri segreti e dimenticati, dei meravigliosi anni 50’, 60’, 70’ (da un po’ anche 80’), dove lo sport preferito non è il calcio, ma il salto sul carro del vincitore, specialità tutta tricolore nella quale annoveriamo veri e propri specialisti del balzo intellettuale, roba da occupare a mani basse un intero podio olimpico.
Questo insopportabile meccanismo si è messo in moto anche quest’anno, quando, quasi dal nulla, ci siamo ricordati dell’anniversario della morte di Pasolini. Positif ha già provveduto a ricordarlo nella maniera più sincera e personale possibile, nel mio piccolo invece, proverò ad omaggiarlo attraverso la re-visione di Visitor Q, film del 2001 di Takashi Miike, una delle poche pellicole contemporanee che si avvicina per intensità e naturalezza alla sua concezione di fare cinema, e che sembra pervasa da una frase che il nostro ripeteva spesso: “Fare del cinema è come scrivere su della carta che brucia”.

Teorema secondo Miike

Correva l’anno 1968 quando Pasolini, in Teorema, mostrò l’implosione del nucleo familiare borghese che prese il via dall’inaspettata visita di un affascinante ospite. Il suo progressivo insediarsi nei meccanismi del focolare domestico gettò in una spirale di decadenza i valori di genitori e figli, innescando un procedimento autodistruttivo che sconvolse l’unità familiare, individualizzando gli scopi e i comportamenti dei protagonisti.
Nel 2001 Miike raccoglie le ceneri di questo procedimento, assumendosi la responsabilità di portare a termine un percorso iniziato da Pasolini e proseguito dal connazionale Ishii Sogo nel suo Crazy Family. Il regista giapponese trova dinanzi alla sua macchina da presa la carcassa carbonizzata di una vecchia istituzione, sia Pasolini che Sogo infatti, avevano provveduto a raderla al suolo. Resta una sola cosa da fare: ricostruire il tutto, partendo dalle fondamenta.
“Per costruire bisogna prima distruggere”, con questo motto il manager dei Sex Pistols rispondeva alle accuse che la stampa britannica imputava ai suoi dissacranti baronetti, Miike da par suo, capisce che la catastrofe è già storia e usa l’estremismo della sua poetica per rimettere le cose al loro posto.
Il suo teorema porta sullo schermo una nuova formula matematica che deve ricontestualizzare la tradizione perduta. Se le famiglie mostrateci da Pasolini e Sogo erano “crazy” nell’accezione piccolo borghese dell’aggettivo, quella dipinta da Miike lo è nel senso psichiatrico del termine: il padre è un presentatore televisivo inetto e ridicolizzato dai suoi colleghi, la figlia, scappata di casa, si guadagna da vivere vendendo il proprio corpo a uomini più anziani (tra i quali c’è anche il suo genitore) , il figlio è una vittima delle arroganze dei suoi compagni di scuola, la moglie, picchiata selvaggiamente dal proprio secondogenito, abusa di droghe ed è anch’essa costretta a prostituirsi per tirare avanti. In questa allucinata e destabilizzante realtà, si fa largo a mattonate il longilineo Q interpretato dal regista Watanabe Kazushi, e la sua intrusione porterà alla riscoperta del perduto senso di unità familiare, una sorta di variabile esterna che, una volta amalgamatasi con la follia delle quattro mura, farà scoccare la scintilla catartica in grado di ricompattare i legami di sangue.
Miike salda i valori tradizionali attraverso una serie di prove dolorose: violenze anali con i microfoni, omicidi, necrofilia, fiotti di latte che sgorgano da seni appesi, metafore della moderna espiazione dei peccati: la purificazione, per essere considerata tale, deve essere sofferta sulla pelle delle anime corrotte, solo in questo modo infatti, si potrà riconquistare la verginità perduta.
Emblematico a tal proposito il bagno nel latte materno (che fa rinsavire il figlioletto violento) e l’abbraccio finale dei membri della famiglia al corpo della donna, intenti a tirare il latte dai suoi seni. Istantanee di una regressione freudiana che comporta una ritrovata e quanto mai salutare armonia familiare.
Il regista quindi, viaggia contromano rispetto al senso di marcia antitradizionalista e autodistruttivo dei suoi colleghi; l’immaginario stesso del film, sicuramente meno digeribile delle metafore religiose che appartengono all’opera pasoliniana, così come l’ingresso dell’intruso (che al telegramma preferisce il rozzo mattone), riempie in maniera furiosa e istintiva l’assurdità delle sequenze, come a volerci dire che al giorno d’oggi, la fuga è la pratica più comune che ci sia, e che per riparare il danno che noi stessi abbiamo causato, urge ritornare ad una brutale e primitiva cattiveria, unico espediente per regalare una morale consolatoria alle nostre mediocri esistenze.
Girato interamente in digitale, Visitor Q è una pellicola selvaggia e dirompente che arriva direttamente allo stomaco rivoltandolo fino alla nausea, una tesi di laurea sulla cattiveria, dolorosa e al tempo stesso indispensabile, sicuramente più sequel che remake di Teorema.
Non sappiamo se lassù Visitor Q è arrivato, ma se così fosse, PPP avrà sicuramente gradito.

(16/11/05)

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