VIVE L’AMOUR

REGIA: Tsai Ming-liang
CAST: Chen Chao-Jung, Lee Kang-Sheng, Yang Kuei-Mei
SCENEGGIATURA: Tsai Yi-Jun, Yang Pi-Yang, Tsai Ming-liang
ANNO: 1994


A cura di Davide Ticchi

L’UMANITA’ IN LACRIME

Quando l’umanità, rappresentata dalla fibra dei protagonisti, e l’occhio della mdp, l’occhio cinema, si soffermano su un particolare comune alla portata di entrambi, come una chiave appesa alla sua toppa, il connubio sembra compiersi nella sacra sindone del piano sequenza marcatamente iperrealista, in cui lo sguardo non riesce a comprendere più di un dettaglio alla volta. Quadro frammentato e costruito da tutti i suoi particolari, posti su diversi piani dell’immagine, ma legati da un senso comune e unitario che ci costituisce e ci definisce nelle diverse qualità di esseri umani. Grande attenzione riposta nella composizione dell’immagine e della sua scenografia, ove si rintracciano elementi emblematicamente provvisti di senso ontologico, come nella sequenza topica del bar caffè in cui Mei-Mei sorseggia un drink, affianco a lei Ah-Rong beve un cafè e la solitudine esistenziale di ambedue i personaggi viene incarnata dal fumo di sigaretta e dalle spalle girate di che è dietro a loro, troppo intento a vociare per accorgersi di questi assunti incredibilmente acuti. Acuti e amplificati, perché un altro grande merito di Tsai Ming-liang è quello di saper mettere in risalto i piccoli gesti e le lievi sfumature, che all’occhio distratto e male abituato dello spettatore postmoderno sfuggono scientemente. Non si dà la minima importanza ad una sequenza in cui due persone stanno sedute al bar a (non) conversare su nulla, semplicemente a non aprire bocca, come ad una donna che va in bagno a fare la pipì, per non parlare di un uomo che, solo in casa, gioca a lanciare in aria e parare le cadute di un cocomero. Scioccamente, ognuna di queste fotografie viene considerata dall’immaginario collettivo come: interlocutoria, sprovvista cioè di un reale “perché” narrativo. Niente di più sbagliato se ci si dedica con impegno alla sola arte del “guardare”, quella che cineasti del calibro di Tsai Ming-liang e Bruno Dumont praticano abitualmente come mezzo ideale per la comprensione della realtà mediocre che ci circonda, e che ci illude quotidianamente dell’esistenza di una punta dell’iceberg facilmente raggiungibile. In verità capovolta verso il basso, sommersa nell’azzurro insipido della monotonia, la pura felicità o la dura sofferenza si può raggiungere con la forza dell’inerzia e della rassegnazione, per mezzo di quegli antipoteri, cioè, che consentono all’uomo di sopravvivere senza false illusioni e irrealizzabili ideologie. Le tre chiavi di un appartamento sono gli unici oggetti, identici, che accomunano tre anime sbiadite dalla sfiducia e dalla improduttività del vivere, che si frappongono tra una stanza e l’altra, tra il letto e il pavimento della concettuale abitazione che sono in grado di aprire. La loro esistenza viene così risolta dalla solitudine, dal desertico cubicolo in cui passano il loro tempo per lavarsi, scoparsi e dormire. Non alimentano altre false speranze, non inseguono una soddisfazione intellettuale del tutto inconsistente, ma si (in)soddisfano del proprio corpo, lido di piacere e al contempo di lacrime. Istinto. Sembra imperare come parola d’ordine nel film premiato con il Leone d’Oro alla 51a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, un istinto quasi animale che porta i protagonisti di Vive l’amour a vivere di sopravvivenza, di beni primi, primordiali. Il regista malesiano nega l’evoluzione avvenuta nell’uomo e sbatte sullo schermo, a pannaggio di questa tesi, l’incapacità di comprenderci in qualità di esseri viventi provvisti di sentimenti, in prevalenza disperati. In tal senso resta emblematica la sequenza finale, dove scorrono dieci lunghi minuti di pianto soffocato, di lacrime che scoloriscono un viso già marchiato dal pallore. Abbiamo assistito ad una lunga camminata all’interno di un parco artistico in lavorazione, dove Mei-Mei fa rintoccare, nell’audio sprovvisto di musiche, il battito dei suoi tacchi sulla pietra, circondata com’è da cumuli di terra marrone scura, che richiama a gran voce l’origine dell’uman dolore. Sedutasi nella fila di panche vuote preceduta da altre, sempre vuote, in una delle quali un anziano signore legge il giornale senza far caso al grido sommesso di umanità in lacrime che lo scorta, Mei-Mei ci penetra l’anima evitando la tappa non per forza obbligata della razionalizzazione delle immagini, che esprimono tutto.
Tsai Ming-liang, con la solita pachidermica pesantezza dello sguardo, realizza un’opera ancor più diradante e iperrealista di quelle che caratterizzeranno la sua invidiabile filmografia. E ancora una volta, il riferimento alla pittura di Edward Hopper pare tassativo.

 

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(23/09/06)

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