WOLVERINE – L’IMMORTALE di James Mangold
REGIA: James Mangold
SCENEGGIATURA: Mark Bomback, Scott Frank
CAST: Hugh Jackman, Tao Okamoto, Famke Janssen, Rila Fukushima, Svetlana Khodchenkova
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2013
WOLVERINE BACK IN A(FFE)CTION
È ufficiale: Logan – in (p)arte Wolverine – è ormai talmente fuori fase da essere pronto a condividere il lettino del terapista di Tony Stark aka Iron Man, che nel suo terzo episodio cinematografico è traumatizzato a più riprese da funesti ricordi di (e paura della) morte. Morte che al contrario Logan agogna al pari di una benedizione, annaspante com’è tra la spinta per la giustizia sociale (e animale), il rifiuto verso la sua natura forzata di superuomo invincibile, e gli artigli persecutori di un fantasma romantico e spietato (tali sono le visioni al calor bianco dell’indimenticata Jean Grey/Fenice). Benché si sia ridotto a vivere come un ramingo solitario, viene presto scrollato dall’oblio dell’autocommiserazione da una Cassandra punk coi capelli rosso shocking: Yukio, ambasciatrice di una vecchia conoscenza bramosa di dare a Logan l’ultimo saluto (forse). Completano il quadro altre due Wolverine’s Angels: la damsels in distress Mariko, che per ¾ della narrazione ha problemi di comunicazione & alchimia col vecchio X-Man, e la (sprecata) villain mutapelle e statuaria Viper.
In verità, la trasferta in terra nipponica dell’uomo di adamantio indistruttibile si traduce in un Giappone convenzionalizzato, fatto di una yakuza quasi inconsistente, puramente funzionalizzata a fare casino, e di immancabili battutine sulle bacchette; a ciò si somma una trama scritta sullo scontrino del barbiere che ad un certo punto trasforma Jackman da cavernicolo (cit.) a bicipite-umano sexy e tormentato (ed in effetti, lo è talmente che quasi lo vorremmo vedere accasato come alla fine della storia fumettistica che ha ispirato questo nuovo capitolo: così almeno per un po’ userebbe gli artigli unicamente per farci gli spiedini (poi magari ci sarebbe il rischio che diventi una specie di Mr. Incredibile, ma questa è un’altra faccenda)).
I dolori del giovane Wolverine trasmigrano in quelli del pubblico: perché mentre la saga degli X-Men tutti (riportata in auge dal bello e compatto X-Men – L’inizio) vive della frescura e della bravura di scrittura/ritmo/interpreti, Wolverine – L’immortale incappa in un regista che (com’era successo, pure peggio, al precedente Wolverine – Le origini) s’appiattisce al servizio di una meccanica visiva senza idee né guizzi, e non getta il cuore (o quantomeno la mdp) oltre l’ostacolo; al contrario, Mangold lo annacqua nella medietà. E purtroppo, è puro autolesionismo chiedersi cosa avrebbe fatto la prima scelta Aronofsky col metallo bruciante del conflitto identitario (il ‘male dentro’ versus il desiderio d’umanità, il terrore del proprio potere, la responsabilità che diventa orrore e sfinimento di se stessi, l’impossibilità del presente nella condanna all’immortalità).
Poi arrivano gli ultimi estenuanti trenta minuti, come appiccati col nastro adesivo, in cui l’unica sequenza d’effetto sembra richiamare uno dei momenti più forti della Mononoke miyazakiana (Wolverine che avanza mentre su di lui incombono corde arpionate che lo trafiggono trasformandolo in un puntaspilli, similmente al protagonista del suddetto film d’animazione Ashitaka), mentre nel prefinale scoppia una rissa che quasi non ci si crede tra Wolvie e un improbabile robottone: ecco, a questo punto ci sentiamo autorizzati a fuggire a vedere Pacific Rim (e di corsa).