WORLD WAR Z di Marc Forster
REGIA: Marc Forster
SCENEGGIATURA: Damon Lindelof, Matthew Michael Carnahan, Drew Goddard
CAST: Brad Pitt, Mireille Enos, James Badge Dale, David Morse
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2013
CRISTO SALVATORE DELL’ORRORE
World War Z è cinema che costringe al compromesso, materia ingannevole, a volte perfida, talmente distante dalle aspettative di comunicazione da rischiare di essere fraintesa; peggio ancora bollata come inutile. Prima che uno zombie movie pre o post Danny Boyle, World War Z è sopratutto un film di Marc Forster, autore incompreso, tutt’al più citato per Neverland e Quantum of Solace, mai per il (quasi) fincheriano Stay o per il dimenticato Vero come la finzione. L’ultimo Forster sta all’immaginario tradizionale dei non morti come un disco degli Incubus suonato sotto Natale, tradotto World War Z è ansioso di raccontare altro: certamente la morte, ma alle sue condizioni; seguendo la propria autorialità.
Da Romero in poi lo zombie movie ha abituato il pubblico ad uno spazio microcentrico: un ristretto gruppo di sopravvissuti rinchiusi in uno contesto d’ambientazione mediamente piccolo, non più grande di una città. Al contrario World War Z allarga i suoi orizzonti su scala mondiale, si disinteressa del classico intreccio di (lotta per la) sopravvivenza così da concentrarsi sullo studio di una cura, inscenando la ricerca per tentativi di una rinascita: un antidoto improvvisato al virus d’origine sociale, politica e, perché no, religiosa. E’ in questo frangente che Forster si conferma autore, cantando ancora l’ossessione della morte attraverso una nuova e convincente metafora: la malattia si fa salvezza, elevandosi ad effetto placebo della cura, passeggero mascheramento della guarigione finale. Ammalarsi per guarire grazie all’intuizione di un salvatore dall’aura cristologica: capelli biondi e sguardo fiero, pronto a scarificarsi nel nome del suo popolo; divinità che intatta cammina tra i (non) morti.
Impeccabile nella sostanza, World War Z denuncia evidenti difetti formali rintracciabili nella sua discontinuità che, a sequenze da manuale, alterna stucchevoli cadute di stile. Tanto che alla successione di suspense pressoché perfetta, da gustare durante l’intero sottofinale ambientato nel laboratorio, fanno da greve contrappeso passaggi che rasentano il Michael Bay più spaccone; si veda, per credere, la catasta di corpi infetti che assedia le mura di cinta costruite per proteggere Gerusalemme. Vero infine, che World War Z non è e mai sarà un horror tout court, ma quelle creature tra l’infetto e il posseduto clonate dal francese Mutants, rischiano più volte di rasentare l’involontaria autoironia: inevitabile scotto da pagare quando si corre il rischio di computerizzare, rendendole smaccatamente adattate alle regole del mainstream, felici trovate che avevano fatto la fortuna di sporchi e rozzi progetti indie.
Perché va bene il filosofeggiare, ma dopo una campagna pubblicitaria di cotanto e invasivo peso, è difficile non stare dalla parte di chi si domanda: “ma gli zombie, quelli veri, quelli che ci avevate promesso, che fine hanno fatto?”