ZWARTBOEK – BLACK BOOK

REGIA: Paul Verhoeven
CAST: Carice Van Houten, Sebastian Koch, Thom Hoffman
SCENEGGIATURA: Paul Verhoeven, Gerard Soeteman
ANNO: 2006


A cura di Alessandro Tavola

VENEZIA 06’: UOMINI E’ QUELLO CHE SIAMO

Fottutamente sincero e anticonvenzionale, goliardicamente pieno, spettacolare e spettacoloso, tagliente e sardonico, manifesto di un dirompere cinematografico oggigiorno classico, quest’ultimo film di Paul Verhoeven si mostra come il suo più completo e incisivo.
Dopo aver segnato il mondo della fantascienza con culmini quali Robocop e Atto di forza, seguito da un periodo altalenante di cult/flop quali ShowGirls o L’uomo senza ombra, il regista olandese si ritrova a tornare a produrre in patria, confezionando una nera epopea caratterizzata da tutti i pregi e i difetti che ciò comporta.

Da subito è chiaro che c’è molta carne al fuoco, nello scorrere di quasi due ore e mezza vi è quasi la completa assenza di momenti morti, in una tempistica quasi fulminea nei legami narrativi e nei cambi di registro, che quasi mai lasciano spazio alla meditazione, senza però narrare per cumuli; una vicenda dove ogni blocco è una nuova tacca sull’emotività e sull’escoriazione visiva.
Siamo nell’Olanda occupata durante la seconda mondiale e seguiamo la storia di Rachel, ebrea prima rifugiata e poi in fuga verso il sud libero, passando per l’attivismo e l’infiltramento negli uffici nazisti, dove il coronamento di una storia d’amore e il terminare della guerra si rivelano meno sorridenti di quanto si possa immaginare.

Vent’anni di lavoro su uno script in apparenza banale che però rullo dopo rullo dimostra come sia stato un film sostanzialmente improducibile negli Stati uniti. A differenza di un compiangente Pianista e totalmente in opposto con la Schindler’s list che tingeva di comprensione e quasi perdono il nazismo=male, Verhoeven riesce a prendere una delle storie più raccontate dagli schermi, nel documentario e nella fiction, e a farne nuovo crepuscolare veritiero affresco dell’animo umano: il libro nero del titolo difatti non è una lista di operai da salvare, ma una lista di ebrei benestanti da uccidere, ad opera di un notaio ebreo lui stesso, e questo è solo il primo lampante segno della (non)politica del film.
Nel deciso scorrere degli eventi, fatti di doppi giochi ed evoluzioni caratteriali, nazisti ed ebrei vengono messi tutti sullo stesso livello, quello di essere umano, nel suo più genetico istinto di sopravvivenza quale animale combattivo, attaccato alla vita, insicuro ma costante per costrizione, vittima dell’alto, dei suoi simili e dell’amore in agguato (che rovina sempre tutto). Nessun personaggio dice mai totalmente la verità e la sincerità manifesta è sempre afflitta dai più forti dubbi, nell’assenza di formale lucidità per la situazione, per le tensioni e le paure innate e motivate. Tutti sono protagonisti e villain al contempo, verso gli altri, verso loro stessi. I traditori sono in agguato, gli infami dappertutto e le donne ammaliatrici sono spesso cardine degli eventi. Occupanti ed occupati godono di uguale considerazione fino al ribaltamento dei ruoli, a Olanda liberata, dove la popolazione, piena di rancore e follia vendicativa, raggiunge picchi di crudeltà collettiva pari a quella dei predecessori.

Cinismo e comprensione così vicini quasi da confondersi, giungenti a una quasi pura venatura veristica, ideologicamente netta, lucida e mai sentenziosa, Cronenberghiana History of violence dominata dal Basic instinct, dove non vi è paura di mostrare con realismo, sia esso fatto di sesso, morte o merda.
Carice Van Houten non è affatto una pecorella smarrita e riesce a risplendere di quella luce magnetica e spietata che ebbe Sharon Stone, entrambe donne combattive dall’animo feroce e pronte a tutto, macchine d’erotismo e d’ironica ma fatale perdizione.
È l’oscurità dell’animo bieco ed egoista, vittima delle fobie, delle voglie, dell’emotività e della sete di potere che ancora una volta trasuda dalle immagini di Verhoeven in un racconto che utilizza la più collaudata forma di storytelling cinematografico, elegante e dettagliato negli oggetti, nei luoghi, nelle sfaccettature visive e nell’estetica generale, come sempre sottile ma spietatamente oggettiva ed estrema nella forma e nel rapportarsi col significato delle immagini che, pur apparendo talvolta forzatamente teatrali e farsesche (soprattutto le scenografie), raggiungono picchi maestosi e da applauso, a fronte di un budget quasi irrisorio di soli 17 milioni di euro per un’opera, nelle intenzioni e nei risultati, così imponente.
Il suo Gangs of New York, per virtuosità tecniche e urlo d’amore/odio verso lo spirito umano, filtrato anche qui attraverso forme storiche, per mezzo delle quali il regista olandese riesce a riversare tutti i propri topoi cinematografici, risplendenti di seconda guerra mondiale, costellati di taglienti e motivate scene d’azione, occhio di sufficienza sulle morali e sulla banale bontà, ammicanti di erotismo e humor ner(issim)o, spietatezza visiva e, su tutto, fredda ma tremendamente reale descrizione dello spirito umano.

 

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(20/09/06)

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