AFTER THIS OUR EXILE

REGIA: Patrick Tam
SCENEGGIATURA: Patrick Tam, Kai Leong Tian
CAST: Aaron Kwok, Charlie Young, Ng King-To
ANNO: 2006


A cura di Luca Lombardini

ROMA 06’: I BAMBINI CI GUARDANO

Tanto tempo fa (più o meno il 1980), iniziò a far parlare di se un regista che sarebbe ben presto diventato un punto di riferimento per qualsiasi studioso della ormai stra nota e stra citata new wave di Hong Kong. The Sword e Love Massacre prima, Nomad, Final Victory e Burning Snow poi, rivelarano a chiunque iniziasse ad avvicinarsi a questo fiorente movimento, il talento decostruente e provocatorio di un cineasta che fece della modernità un humus stilistico, un paradigma creativo di ogni suo lavoro. Riposta la macchina da presa, Patrick Tam divenne il mentore sotto la cui ala protettrice crebbero e si affermarono numerosi autori, in grado di oltrepassare con la loro arte quelle che nell’epoca pre internet sembravano barriere geografiche insormontabili, tra i cui nomi figurano quelli illustri di Stanley Kwan, Wong Kar-wai e Johnnie To, che riuscirono a trarre linfa vitale dalle sue validissime capacità di montatore.
Naturale quindi, che con questo popò di curriculum alle spalle, dopo una pausa registica che pareva interminabile, e in un momento storico in cui la parola crisi è divenuta di dominio pubblico anche in quel di Hong Kong, si aspettasse con trepidazione l’arrivo della sua ultima fatica, intitolata semplicemente Fu Zi, cioè “padre figlio”.
Nonostante le altissime aspettative che lo circondavano, After this our exile tutto si è rivelato tranne un film che valga la pena di essere etichettato sotto l’aggettivo memorabile.
Quasi avesse saputo in anticipo di poter concorrere per un premio nel paese e soprattutto nella città del neorealismo, Tam costruisce una pellicola che, pur distanziandosi nettamente dalla trama, occhieggia non poco alla storia del piccolo Pricò, portata sullo schermo nel 1943 da Vittorio De Sica. Al posto del suicidio di un padre, provocato dal tradimento della moglie, in Fu Zi si assiste alla fuga di una madre che sconvolge in maniera irreparabile il già precario equilibrio di una piccola famiglia. Come De Sica, Tam lascia che la tragedia si sviluppi e si rifletta negli occhi di un bambino che, costretto dagli eventi, deve allontanarsi dallo studio e dalla sua casa natale, al seguito di un padre irresponsabile e non ancora in grado di badare a lui. La pellicola, incentrata sull’incapacità dei due adulti di assumersi le proprie responsabilità, è praticamente tutta qui; e se ogni tanto si scorgono trovate interessanti (il fatto che il bambino non abbia un nome ma venga chiamato solo Boy, o la doppia interpretazione di Aaron Kwok nel ruolo dei due uomini amati dalla sua “dolce metà”), l’eccessiva durata del film (150 minuti), la messa in scena quasi immobile e pesantemente ipnotica, e alcune forzature narrative (perché mai Kwok, che ha appena scoperto la sua bella con le valige in mano, decide di partire in crociera con il figlio lasciando la consorte sola e con tutto il tempo a disposizione per organizzare una nuovo tentativo di abbandonare il focolare?), contribuiscono a formulare un giudizio che non può non essere negativo.
Quello che più stupisce è, gioco di parole a parte, non stupirsi dinanzi ad un film di Tam, imbattersi in una pellicola che, anziché sfidarlo, fa di tutto per conformarsi al concetto di classicità, e finisce per perdere non solo l’inevitabile confronto con il modello (supponiamo De Sica, ma possiamo anche sbagliarci), ma anche ipotetici paralleli con esempi simili di dramma familiare più o meno recenti (l’esordio ancora fresco di Kim Rossi Stuart ad esempio).
Come in preda ad un onnivoro virus cinematografico, Fu Zi filma di tutto e di più, insiste nell’aggiungere anziché decidersi a sottrarre, si impalla in fase di montaggio tra sguardi, lacrime “sussurri e grida” silenziose, satura di inquadrature e minuti una vicenda povera di crocevia narrativi, apparendo ridondante e verboso.
Resta solo la convincente prova di Aaron Kwok in un ruolo estremamente controverso, il quale però, non riesce nell’impresa di salvare un film che, per usare una metafora automobilistica, manca di marce veloci pur possedendo quelle di potenza.

 

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