LA CITTA’ PROIBITA
REGIA: Zhang Yimou
SCENEGGIATURA: Zhang Yimou
CAST: Gong Li, Chow Yun Fat, Ye Liu
ANNO: 2006
A cura di Pierre Hombrebueno
L’ORO SI TINGE DI SANGUE: IL
VELENO SI ESPANDE DALLE RADICI AL LABIRINTO – ZHANG YIMOU CONCEPISCE UN
NUOVO CAPOLAVORO. STANDING OVATION
Magnifica macchina da presa, che fin dall’incipit, con semplici
carrellate, disegna una coreografia geometrica esteticamente superlativa, con
la massa di sagome fanciullesche allineate come a cercare il perfetto
equilibrio messainscenico. Si pongono ai margini del quadro, perché altro non
sono che contorno per la figura destinata ad occupare il centro
dell’occhio, a completare la bilancia: macchina fissa in un primo piano
avvolgente di Sua Maestà L’Imperatrice, Gong Li, finalmente e nuovamente con Zhang Yimou (e anche solo per questo ritrovo, l’opera in
questione merita di essere festeggiata per giorni di fila, insomma, capiamoci, Gong Li sta a Zhang Yimou come Anna Karina
sta a Godard, o come Chow Yun Fat sta a John Woo), in una riunione binomica che mantiene le promesse: La città proibita è il miglior film di Yimou dai tempi di Shangai triad, addirittura superiore ai già ottimi wuxia
precedenti. Perché se Hero e La foresta dei pugnali volanti erano i
primi muri da sorvolare, la sfida autoriale di Yimou che cerca di cucire alla propria poetica le convenzioni di
genere inserendosi in un filone che ha dalla sua decenni e decenni di storia e
tradizioni, La città proibita è invece il ritorno delle due
facce nella stessa medaglia, il nuovo e il vecchio Yimou uniti e compatti insieme.
Più di Hero e La foresta, in quest’opera ritroviamo tutti i vecchi stilemi
e marchi del regista, non solo dal già citato ritorno di Gong Li nelle mani del suo direttore prediletto, ma anche nel
ri-emergere di quel glaciale intimismo catartico che abbiamo assaporato in
opere quali Lanterne rosse o La storia di Qiu Ju. Il rito come
simbolo annunciato di una morte in arrivo, ma anche e soprattutto la figura
femminile come vittima sacrificale nell’altare, legata suo malgrado ad un
destino infame da cui è impossibile scappare: Yimou forgia una Città Proibita sfarzosissima ed iper-epica, ma in
realtà è nient’altra che un’enorme prigione che sparge veleno e
sangue da ogni poro, dove ogni abitante, che sia l’Imperatore o una
semplice serva, custodisce segreti mortali, che presto o tardi esploderanno.
Magnifica capacità dell’Autore è proprio gestire con estrema lucidità sia
la dimensione privata dei suoi personaggi, sia il respiro pubblico ed epico che
fa da contorno al dramma; lo sfaldamento famigliare da una parte e i
combattimenti epici dall’altra. Come un abilissimo burattinaio, quando è
rinchiuso negli spazi chiusi, Yimou
conduce i suoi corpi nella spirale del loro destino, rafforzando e concentrando
l’intreccio con le fotogenie del cast, sfruttato al massimo, a cominciare
sempre da quella Gong Li già
trionfante agli Hong Kong Film Awards
per questo ruolo, che con intensissima maestria, trasuda in modo meticoloso le
due passioni che la avvolgono, quella amorosa per Ye Liu, e quella materna per Jay
Chou. Lei ci mostra occhi così perforanti che piangono sempre, però
trattenendo le lacrime che scenderanno solo poche volte, forse perché in fondo
anestetizzate dal dolore, tra spietata durezza ed esplosione interiore di
disperazione. Dialoghi secchi, giochi di sguardi e di silenzi che costruiscono
il climax di una finta serenità con la tempesta già fuori dalle mura, il tutto
con un uso delle musiche volutamente forte e stordente, non delle note di
semplice accompagnamento, ma parti di una costruzione emotiva che nella sua
struttura guarda direttamente le tragedie Greche, con il coro che avvolge in
quanto strumento per la tensione. E anche quando Yimou si allontana dai primi piani e dai totali per trasferirsi
oltre le mura, riesce a creare bombardamento visivo con i campi lunghi delle
scene di massa, sia quando sorvola con le riprese aeree, sia quando scende
incisivamente in battaglia volteggiando nell’ammasso sporco e putrido dei
guerrieri.
Improvvise
e inaspettate zoomate nei combattimenti, con focalizzazioni fugaci sui
dettagli: siamo già lontani dall’eleganza coreografica di Hero, dalle lunghe e dilatate lievitazioni
leggiadre dei suoi cavalieri erranti. Qui il volo assume una pesantezza
aggressiva: dallo spirito e dalla mente si passa al corpo, al sudore e al
sangue, quello stesso sangue che schizza caldo e denso fra le pareti dorate del
palazzo, atto simbolo di una potenza dittatoriale di sfarzosa lussuria ormai
macchiata indelebilmente di morte. Perché ne La città proibita la maledizione non è solo quella dei fiori color
oro (come annuncia il titolo inglese The
curse of the golden flower), ma è anche una maledizione che in primis nasce
dal cuore umano, dai suoi sentimenti più antichi come l’avidità o la
gelosia. L’opera vive dunque di un fortissimo contrasto fra
l’apparenza e la verità, l’aspetto superficiale delle cure
scenografiche e quello introspettivo dei caratteri; tutto il luccicare
caleidoscopico della cromatica è una maschera e un inganno, in quanto il film è
ricoperto di nero inchiostro fin dall’inizio, dove vediamo il corpo della
protagonista tremolare nella sua apparente perfezione nobiliare.
La città proibita è un wuxia che è però prima di
tutto tragedia famigliare che respira intensità evocativa ad ogni frame, la cui
umanità esce dalle macchinosità dei costumi per rendersi di un’attuale
vivo e pulsante, fino all’ultimissima scena, di quel plongè come di
consueto simbolo di morte, che stavolta però non inquadra dei cadaveri (quelli
sono stati ripuliti in fretta e furia per rimettersi la maschera delle
celebrazioni di palazzo), bensì una stemma, quella della famiglia reale ormai sporcata
di acido veleno.
Inchino a Zhang Yimou.
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