INLAND EMPIRE

REGIA: David Lynch
CAST: Laura Dern, Jeremy Irons, Justin Theroux
SCENEGGIATURA: David Lynch
ANNO: 2006


A cura di Alessandro Tavola

VENEZIA 06’: DESCENT IN-LYNCH EMPIRE

INLAND EMPIRE è formalmente e intimamente una completa, magica, imponente, magistrale, sanguinolenta, solenne, solitaria, terrificante, gustosissima, disturbante, infinita VIOLENZA CARNALE per qualsiasi spettatore preparato o impreparato, fremente o disinteressato.
Massima espressione odierna del Cinema=Sogno e del cul-de-sac di speculazioni (marzulliane?) che ne può nascere.
Rinnovata prova della maestria di LYNCH del saper creare oniricità principalmente con il Quando delle immagini più che col Come.

Impensabile possa esistere senza le opere precedenti, si tratta principalmente del film della LIBERTA’ - per LYNCH, per i sognatori, per gli anarchici del CINEMA - nel suo durare quanto deve, nell’essere stato girato con semplici DV-Cam («Non tornerò mai più alla PELLICOLA» dice il regista). Senza una vera sceneggiatura, con nessun vincolo dall’alto, facendolo ricongiungere direttamente a Eraserhead del 1977: entrambi i film sgorgano da anni di cortometraggi e rinnegano i canoni del formale storytelling, sdoganando le formalità, andando verso il culmine, la linfa vitale e la sostanza della pura emozionalità viscerale solitamente sospesa nell’intimo dell’aria dei (non) movimenti che ogni regista sottintende in qualsiasi vicenda dipinga.
(Ennesimo pensiero rivolto al Cane Andaluso, e il parallelo Lynch-Bunuel si fa più legittimo.)

Inno alla fase REM e al TERRORE/AMORE come congiunti, INLAND EMPIRE è un distillato di qualsiasi formalità del raccontare cinematografico che qui diviene assoluto ASSENZIO widescreen, un’implosione di passioni e paure in un’apocalisse di concetti/idee/simboli elementali e nuova GENESI primitiva dell’audiovisivo, dove l’occhio si fa clitoride e il cervello trema sardonico vittima di un bondage dal carnefice cinematografico. La mente intuisce ma si sente lenta e cerca di capire, di prendere in mano la situazione, di stringere amicizia con ciò che vede. La razionalità presa in giro, gli elementi si aggiungono e si sottraggono, si autoconfermano e poi svaniscono, per poi tornare come un deja vù, per la protagonista, per noi spettatori.
Un enorme incubo fatto di perfetti PIXEL scriventi di contorni sfumati, di colori snaturati dal digitale, masticati e assorbiti, denudati di qualsiasi autocompiacimento cromatico, con le poltrone e ciò che viene illuminato dal riflesso dello schermo che divengono parte integrante della visione, (in)naturale estensione quasi folle della consapevolezza di star assistendo a qualcosa di anomalo, un dure e pure infravisivo. Sbiadito am(at)or(ial)e d’immagini che delineano minuto dopo minuto i volti e i luoghi, con lo status shock sempre in agguato.

Cade il «Per fare un film bastano una donna e una pistola», qui basta solo la DONNA. In un fantasticare dove grammofoni in bianco e nero e bruciature nella seta accompagnano tra mondo e mondo senza che nessuno sia quello vero, Laura Dern vaga, per salotti e per set, per strade innevate e improbabili barbecue, tra conigli giganti e puttane, vite da star e sfaceli finanziari in infiniti remind dell’UNIVERSO lynchano fin’ora conosciuto, con tutti quei feticismi/morbi/fobie/strumenti filmici/topos stilistici che in queste parole scritte sarebbero solo un elenco.
A differenza di Mulholland Drive (capolavoro di terrificante eleganza) dove i mondi erano frutto di una linea spaccata e speculari, Strade perdute (grido dei più dark e rock fino ad ora) o Cuore selvaggio (che di I.E è il negativo romantico), ci si ritrova a scrutare INLAND EMPIRE come se fosse un quadro di Escher, dove ogni frammento è quello vero fino a quando d’un tratto non appare ben riconoscibile quello successivo, in un cerchio senza via di scampo, che si richiude, assurdo ma perfetto nel suo essere cerniera di una moltitudine di elementi fisici, uditivi, cromatici.
La colonna sonora galoppa come in un shuffle, da sviolinate gracchianti di Badalamenti a successi pop, dalle liriche di Naomi Watts a brani dello stesso LYNCH. Neanche l’orecchio riesce a mantenere serenità.
Trip (d’es)senza reale, l’esistere è multilayer nel suo essere gioco di reincarnazione sempre tor(menta)to. Mai impostore ma sempre beffardo, senza bugie ma senza mai essere chiaro, prendendo in giro noi che guardiamo, spargendo dubbi e sorprendendo nel renderli futili. Il gioco di personificazione spettatore-attore si fa diegetico ed esteso a tutte le sfaccettature della vita: l’abbandono dei sogni, la ricerca di maschere, l’essere attori, il doverlo essere, il dimenticare il passato, negare se stessi, l’accorgersi di non esistere, la fuga nella fiction, nel dolcemente alternativo e inesistente (o forse fin troppo). Non è un film sul Cinema o su ciò che esso può significare: è un film DEL Cinema.
Forse.
Perché quel che rimane dopo la visione è solo un rantolo di pensieri impauriti (solo The descent in tempi recenti era arrivato a tanto) come cuccioli di fronte a un’opera(zione che ha del chirurgico) che sputando sulla normalità riesce a carpirne l’essenza più intima, e forse per questo, incapibile.

È il gioco degli incubi, che la notte squarciano il sacco nero che raccoglie la giornata trascorsa. È il gioco del Cinema che in LYNCH gira come una trottola assottigliando sempre più la distanza e il filtro tra occhio e sinapsi, in una forma volutamente grezza e proprio per questo più che mai tagliente. Un Truman Show dell’innato, in una ludica tortura (s)velata come in I tre volti della paura (che qui sono cinque, sei, sette o anche uno e uno solo, organicamente UMANO). Film (vivi)sezionato, fumoso come un respiro invernale, assuefante scorrere di immagini e suoni. Semplici immagini e suoni. La FAVOLA della buonanotte.
Questo alla PRIMA visione, magari anche alla seconda, alla terza - quelle che contano. Oltre, sarebbe immenso svago di puzzle, analisi pavoneggiante, divertissement masochista e dissacratorio del dissacratorio stesso.
Riecheggia un sussurrato happy ending, o forse è solo la morte che con sorriso smagliante prima o poi arriva. Per il film, per i suoi personaggi, per le certezze nostre.

LUI stesso lo definisce come il proprio La dolce vita, ma sembra più di vedere/udire/annusare/fare sesso con una Bohemian Rapsody.


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